giovedì 29 maggio 2008

ANALISI DEL TESTO DEL BRANO TRATTO DA :
”IL PRINCIPE” DI MACHIAVELLI


“Le qualità che rendono gli uomini e soprattutto i principi degni di lode o biasimo”: Questo è il titolo del brano in cui il Machiavelli spiega quali siano le qualità che si addicono o no al Principe.

All’inizio del passo troviamo innanzitutto l’argomento che egli vuole trattare: “in qual modo un principe debba comportarsi con i sudditi e con gli amici”. In seguito abbiamo lo scopo di tale argomento: “scrivere qualcosa di utile per chi vuol capire”,ma, “seguendo la verità piuttosto che le fantasie”. In queste parole risiede una sorta di dritta nei confronti di chi, prima di lui, aveva cercato di spiegare come “avrebbe dovuto” essere e non come “doveva” essere un sovrano. Ciò comportava una visione utopistica dello stato, ma non affrontava il problema nella realtà attuale,che è invece lo scopo stesso del Machiavelli indicatoci nel brano. Inoltre l’avversione nei confronti di uno stile di scrittura che invece di ricalcare la realtà, la mascherava con esornazioni e abbellimenti, è rintracciabile anche nel brano della dedica a Lorenzo di Piero De’ Medici, in cui ci spiega che il suo stile, ma in generale il suo trattato, non era un semplice elogio che andava tessendo le lodi della famiglia De’ Medici, pieno di quelle pleonastiche esornazioni, ma era un dono, secondo lo stesso machiavelli, che valeva più di qualsiasi ornamento: la sua esperienza politica. Ritornando al brano, dopo averci parlato dello scopo di questo componimento, egli dice che “è necessario che un principe, per restare al potere, impari a poter essere non buono, e a seguire o non seguire questa regola, secondo le necessità”. Questa capacità di imparare ad essere buono o non buono, a seconda delle necessità, è molto vicina al principio della discrezione, del Guicciardini.
In seguito, nel brano, ci fa una sorta di catalogo delle possibili qualità attribuibili ai principi:
” C’è chi viene considerato munifico, e chi misero; qualcuno è ritenuto capace di donare, qualche altro rapace; qualcuno crudele, qualche altro pietoso”.
Inoltre abbiamo un’ammissione da parte dell’autore, secondo cui, non è possibile per i principi, possedere tutte le qualità ritenute buone”perché la condizione umana non lo consente”. Qui, allora, entrano in gioco le due caratteristiche fondamentali che deve avere un principe: deve essere golpe et
lione, volpe e leone. Quando serve deve essere furbo e astuto come una volpe, e crudele e coraggioso come un leone, solo in tal modo infatti può indirizzare la fortuna (come destino) a vantaggio dello stato e vincerla attraverso la virtù. Alla fine del brano troviamo una massima da parte del Machiavelli, il quale ci dice che:“Tutto considerato, ci sono qualità aventi l’apparenza di virtù, che conducono il principe alla rovina, e qualità aventi l’apparenza di vizi, che lo conducono invece alla sicurezza e al benessere”. In tal modo egli rivaluta il significato della parola virtù, gli attribuisce il valore di vox media, infatti per lui la virtù non è necessariamente pervasa da qualità ritenute buone, ma essa può significare anche astuzia, furbizia e quindi scaltrezza.
Il brano può essere diviso in tre macrosequenze:
I. vv.(1-19) IIvv.(20-33) IIIvv.(34-46)
Ad esse possiamo dare i seguenti titoli:
I. A cosa serve conoscere le virtù che si addicono ai principi;
II. Le qualità attribuibili ai principi;
III. Quali le virtù o le qualità che si addicono ad un principe e come comportarsi per guidare meglio uno stato.
A livello linguistico, il lessico risulta semplice, tuttavia non mancano dei latinismi che però non vanno a complicare il senso semantico ma, al contrario, vengono usati dall’autore poiché egli non ritiene chiaro per il lettore il senso della corrispondente parola italiana. Per esempio egli usa “misero” al posto di avaro poiché l’accezione prevalentemente negativa data a tale aggettivo non rende bene la caratteristica che egli vuole esprimere: “ colui che si astiene dall’usar troppo le cose sue”. Inoltre abbiamo l’aggettivo munifico che viene usato perché probabilmente prodigo sarebbe stato riduttivo, ma di certo non per complicare il lessico.
Lo stile che adotta è esortativo e persuasivo nei confronti dei principi, di polemica, invece,
verso coloro che “ seguendo la fantasia” nel trattare di politica, si distolgono dall’“inseguire la verità concreta”. Questa dritta era indirizzata a coloro che avevano trattato dei vizi e delle virtù dei principi, prima di lui. La sintassi è scorrevole, infatti prevale la coordinazione (soprattutto nella seconda sequenza), ma tuttavia non mancano delle proposizioni subordinate soggettive ( E’ necessario che […]), qualche subordinata oggettiva e relativa, inoltre i periodi sono quasi tutti brevi. Per quanto riguarda le figure retoriche, troviamo diverse antitesi: “crudele, pietoso; fedifrago, fedele; effeminato, feroce ecc”, tutte coordinate per asindeto.
E’ uomo del suo tempo, non estraneo all’attualità politica, ma, anzi, molto presente e importante per Firenze date le sue capacità diplomatiche. Che sia un uomo del Rinascimento lo si capisce soprattutto dalla sua fiducia negli antichi, ammessa nella lettera all’amico Vettori in cui spiega quale piacere sia, dopo la giornata, ritirarsi nella sua stanza e leggere i classici, da cui trarre ispirazione per l’attualità politica. Per quanto riguarda la morale e la sua concezione religiosa, lo sottoposero a varie critiche. Infatti gli scritti e il nome stesso di Machiavelli furono messi al bando dalla Controriforma che non accettava la concezione di uno stato laico, frutto della semplice iniziativa umana e rifiutava l’idea machiavelliana che la Chiesa fosse responsabile della decadenza italiana o dell’uso della religione come “instrumentum regni”, mezzo demagogico con cui guadagnare il consenso della massa per mandare avanti lo stato. Tuttavia vi è un critico contemporaneo del Machiavelli, Paolo Paruta, cosciente che spesso la logica politica tralasciava ogni considerazione morale e poneva al cristiano continui dubbi sulla condotta da seguire, il quale lasciò all’uomo di stato il compito di conciliare la politica la morale e la religione. Il Guicciardini, più scettico e disincantato del Machiavelli, rivolge la sua attenzione, più che sulla riflessione teorica, all’attenta e scrupolosa valutazione della realtà mostrando un atteggiamento aristocratico e disdegnoso delle masse e degli aspetti troppo umili e materiali della quotidianità. Si può dire che quel suo pessimismo e l’accettazione della realtà si avvicina ad una visione stoica. Infatti se per lo stile e per la storiografia si assomigliano, i due autori si differenziano molto per la concezione che hanno riguardo alla “fortuna.”Se Machiavelli crede che la fortuna può essere indirizzata dalla virtù verso i propri interessi, per Guicciardini il destino non può essere vinto ma gli eventi storici si devono accettare così come accadono.



III A Liceo Classico
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