ANALISI DEL TESTO DEL BRANO TRATTO DA :
”IL PRINCIPE” DI MACHIAVELLI
“Le qualità che rendono gli uomini e soprattutto i principi degni di lode o biasimo”: Questo è il titolo del brano in cui il Machiavelli spiega quali siano le qualità che si addicono o no al Principe.
All’inizio del passo troviamo innanzitutto l’argomento che egli vuole trattare: “in qual modo un principe debba comportarsi con i sudditi e con gli amici”. In seguito abbiamo lo scopo di tale argomento: “scrivere qualcosa di utile per chi vuol capire”,ma, “seguendo la verità piuttosto che le fantasie”. In queste parole risiede una sorta di dritta nei confronti di chi, prima di lui, aveva cercato di spiegare come “avrebbe dovuto” essere e non come “doveva” essere un sovrano. Ciò comportava una visione utopistica dello stato, ma non affrontava il problema nella realtà attuale,che è invece lo scopo stesso del Machiavelli indicatoci nel brano. Inoltre l’avversione nei confronti di uno stile di scrittura che invece di ricalcare la realtà, la mascherava con esornazioni e abbellimenti, è rintracciabile anche nel brano della dedica a Lorenzo di Piero De’ Medici, in cui ci spiega che il suo stile, ma in generale il suo trattato, non era un semplice elogio che andava tessendo le lodi della famiglia De’ Medici, pieno di quelle pleonastiche esornazioni, ma era un dono, secondo lo stesso machiavelli, che valeva più di qualsiasi ornamento: la sua esperienza politica. Ritornando al brano, dopo averci parlato dello scopo di questo componimento, egli dice che “è necessario che un principe, per restare al potere, impari a poter essere non buono, e a seguire o non seguire questa regola, secondo le necessità”. Questa capacità di imparare ad essere buono o non buono, a seconda delle necessità, è molto vicina al principio della discrezione, del Guicciardini.
In seguito, nel brano, ci fa una sorta di catalogo delle possibili qualità attribuibili ai principi:
” C’è chi viene considerato munifico, e chi misero; qualcuno è ritenuto capace di donare, qualche altro rapace; qualcuno crudele, qualche altro pietoso”.
Inoltre abbiamo un’ammissione da parte dell’autore, secondo cui, non è possibile per i principi, possedere tutte le qualità ritenute buone”perché la condizione umana non lo consente”. Qui, allora, entrano in gioco le due caratteristiche fondamentali che deve avere un principe: deve essere golpe et
lione, volpe e leone. Quando serve deve essere furbo e astuto come una volpe, e crudele e coraggioso come un leone, solo in tal modo infatti può indirizzare la fortuna (come destino) a vantaggio dello stato e vincerla attraverso la virtù. Alla fine del brano troviamo una massima da parte del Machiavelli, il quale ci dice che:“Tutto considerato, ci sono qualità aventi l’apparenza di virtù, che conducono il principe alla rovina, e qualità aventi l’apparenza di vizi, che lo conducono invece alla sicurezza e al benessere”. In tal modo egli rivaluta il significato della parola virtù, gli attribuisce il valore di vox media, infatti per lui la virtù non è necessariamente pervasa da qualità ritenute buone, ma essa può significare anche astuzia, furbizia e quindi scaltrezza.
Il brano può essere diviso in tre macrosequenze:
I. vv.(1-19) IIvv.(20-33) IIIvv.(34-46)
Ad esse possiamo dare i seguenti titoli:
I. A cosa serve conoscere le virtù che si addicono ai principi;
II. Le qualità attribuibili ai principi;
III. Quali le virtù o le qualità che si addicono ad un principe e come comportarsi per guidare meglio uno stato.
A livello linguistico, il lessico risulta semplice, tuttavia non mancano dei latinismi che però non vanno a complicare il senso semantico ma, al contrario, vengono usati dall’autore poiché egli non ritiene chiaro per il lettore il senso della corrispondente parola italiana. Per esempio egli usa “misero” al posto di avaro poiché l’accezione prevalentemente negativa data a tale aggettivo non rende bene la caratteristica che egli vuole esprimere: “ colui che si astiene dall’usar troppo le cose sue”. Inoltre abbiamo l’aggettivo munifico che viene usato perché probabilmente prodigo sarebbe stato riduttivo, ma di certo non per complicare il lessico.
Lo stile che adotta è esortativo e persuasivo nei confronti dei principi, di polemica, invece,
verso coloro che “ seguendo la fantasia” nel trattare di politica, si distolgono dall’“inseguire la verità concreta”. Questa dritta era indirizzata a coloro che avevano trattato dei vizi e delle virtù dei principi, prima di lui. La sintassi è scorrevole, infatti prevale la coordinazione (soprattutto nella seconda sequenza), ma tuttavia non mancano delle proposizioni subordinate soggettive ( E’ necessario che […]), qualche subordinata oggettiva e relativa, inoltre i periodi sono quasi tutti brevi. Per quanto riguarda le figure retoriche, troviamo diverse antitesi: “crudele, pietoso; fedifrago, fedele; effeminato, feroce ecc”, tutte coordinate per asindeto.
E’ uomo del suo tempo, non estraneo all’attualità politica, ma, anzi, molto presente e importante per Firenze date le sue capacità diplomatiche. Che sia un uomo del Rinascimento lo si capisce soprattutto dalla sua fiducia negli antichi, ammessa nella lettera all’amico Vettori in cui spiega quale piacere sia, dopo la giornata, ritirarsi nella sua stanza e leggere i classici, da cui trarre ispirazione per l’attualità politica. Per quanto riguarda la morale e la sua concezione religiosa, lo sottoposero a varie critiche. Infatti gli scritti e il nome stesso di Machiavelli furono messi al bando dalla Controriforma che non accettava la concezione di uno stato laico, frutto della semplice iniziativa umana e rifiutava l’idea machiavelliana che la Chiesa fosse responsabile della decadenza italiana o dell’uso della religione come “instrumentum regni”, mezzo demagogico con cui guadagnare il consenso della massa per mandare avanti lo stato. Tuttavia vi è un critico contemporaneo del Machiavelli, Paolo Paruta, cosciente che spesso la logica politica tralasciava ogni considerazione morale e poneva al cristiano continui dubbi sulla condotta da seguire, il quale lasciò all’uomo di stato il compito di conciliare la politica la morale e la religione. Il Guicciardini, più scettico e disincantato del Machiavelli, rivolge la sua attenzione, più che sulla riflessione teorica, all’attenta e scrupolosa valutazione della realtà mostrando un atteggiamento aristocratico e disdegnoso delle masse e degli aspetti troppo umili e materiali della quotidianità. Si può dire che quel suo pessimismo e l’accettazione della realtà si avvicina ad una visione stoica. Infatti se per lo stile e per la storiografia si assomigliano, i due autori si differenziano molto per la concezione che hanno riguardo alla “fortuna.”Se Machiavelli crede che la fortuna può essere indirizzata dalla virtù verso i propri interessi, per Guicciardini il destino non può essere vinto ma gli eventi storici si devono accettare così come accadono.
III A Liceo Classico
army
giovedì 29 maggio 2008
martedì 27 maggio 2008
SAGGIO BREVE
LA POLEMICA ILLUMINISTICA NEI CONFRONTI DELLA SUPERSTIZIONE
Oggi la critica è concorde nell’attribuire al movimento filosofico-culturale che si sviluppò nei secoli diciassettesimo e diciottesimo il nome di “Illuminismo”.Tale periodo è caratterizzato dalla fede nella ragione come mezzo per liberare la mente dalla superstizione, dall’ignoranza e dall’oscurantismo. La superstizione è stata considerata dagli Illuministi, al pari dell’ignoranza, un ostacolo per il progresso. Ciò scaturisce anche dal fatto che oltre alla fede nella ragione gli intellettuali di questo periodo avevano fiducia nel genere umano e nella sua capacità di promuovere il progresso. Invece la superstizione era stata usata da alcuni sovrani del passato per conseguire il consenso del popolo, quel “consenso” tanto chiaro al Macchiavelli. Per fare un esempio di quanta demagogia si può trovare nella superstizione bisogna partire da lontano. Già Ottaviano Augusto aveva conseguito il consenso del popolo proprio con la superstizione. Egli, come i monarchi assolutistici orientali, si faceva venerare come un “Dio” (divus), ed usava la superstizione come strumento per mantenere quella“pax augustea” tanto famosa. La visione di una religione come strumento per il buon andamento dello stato (instrumentum regni) verrà poi adottata dal Machiavelli. La superstizione dunque é stato un efficace mezzo per i sovrani allo scopo di ottenere adulazione e mantenere il potere dello stato, molte volte a discapito del popolo. Purtroppo una diretta connessione fra superstizione e ignoranza ha dato alla luce gravi problemi: il terrorismo e il fanatismo “fondamentalista”. Del fanatismo ce ne parla già Voltaire come una degenerazione della superstizione, come emerge dalla conclusione dell’opera “Dizionario Filosofico” in cui spiega che “meno superstizioni, meno fanatismo; meno fanatismo, meno sventure”. Un altro intellettuale illuminista, De Condorcet, nell’opera: “Quadro storico dei progressi dello spirito umano”, definisce la superstizione ostacolo per il progresso umano. Per spiegarci che la scienza non contaminata dalla superstizione ha conosciuto il progresso egli ci parla di Galilei come colui che “fondò la prima scuola in cui le scienze sono state coltivate senza alcuna mescolanza di superstizione, derivante dal pregiudizio”. Beccaria invece nella celeberrima opera: “ De’ Delitti e delle Pene” definisce la superstizione come “quello spirito tenebroso di cabala e d’intrigo”che può sparire solo “in faccia ai lumi”. Dunque ancora una volta un intellettuale illuminista ribadisce la forza civilizzatrice della ragione e la negatività della superstizione. Altri filosofi, oltre a Galilei, hanno creduto che fosse necessaria la separazione fra fede e ragione. Giordano Bruno e Thomas Hobbes hanno infatti affermato una netta separazione fra fede e ragione, dal momento che molte volte la religione rischiava di non promuovere il progresso bensì il regresso rinchiudendo l’uomo all’interno di limiti posti dai suoi dogmi. Ma il critico Illuminati nella sua “Introduzione al Contratto sociale di Jean- Jacques Rousseau” definisce come diretta conseguenza della superstizione, “l’intolleranza”. Egli spiega che “ la via d’uscita che si propone (Rousseau) sta nell’adozione di una religione civile, che non consti di dogmi, ma di articoli fissati dal corpo sovrano e aventi la funzione di regole di socievolezza, senza le quali è impossibile vivere da buon cittadino”. Quindi Voltaire, De Condorcet, Beccaria e Rousseau trovano certamente un punto d’accordo nel dire che la superstizione sia una cosa negativa. Tuttavia gli autori forniscono delle vie d’uscita. Beccaria ci suggerisce la stampa come strumento che dia lucide informazioni in modo da eliminare quel senso di pregiudizio che dà luogo alla superstizione e al fanatismo. Rousseau ci suggerisce una “religione civile” che elimini i dogmi intolleranti delle religioni nazionali. Infine c’è da dire che purtroppo il problema della superstizione, oggi, ci tocca da vicino. Proprio quell’intolleranza e quel fanatismo sono stati causa degli attentati dell’undici settembre duemilauno, e hanno dato origine alla guerra nel marzo del duemilatre, per non parlare degli attentati di Madrid, Londra e di quelli che in Iraq avvengono praticamente quotidianamente.
LA POLEMICA ILLUMINISTICA NEI CONFRONTI DELLA SUPERSTIZIONE
Oggi la critica è concorde nell’attribuire al movimento filosofico-culturale che si sviluppò nei secoli diciassettesimo e diciottesimo il nome di “Illuminismo”.Tale periodo è caratterizzato dalla fede nella ragione come mezzo per liberare la mente dalla superstizione, dall’ignoranza e dall’oscurantismo. La superstizione è stata considerata dagli Illuministi, al pari dell’ignoranza, un ostacolo per il progresso. Ciò scaturisce anche dal fatto che oltre alla fede nella ragione gli intellettuali di questo periodo avevano fiducia nel genere umano e nella sua capacità di promuovere il progresso. Invece la superstizione era stata usata da alcuni sovrani del passato per conseguire il consenso del popolo, quel “consenso” tanto chiaro al Macchiavelli. Per fare un esempio di quanta demagogia si può trovare nella superstizione bisogna partire da lontano. Già Ottaviano Augusto aveva conseguito il consenso del popolo proprio con la superstizione. Egli, come i monarchi assolutistici orientali, si faceva venerare come un “Dio” (divus), ed usava la superstizione come strumento per mantenere quella“pax augustea” tanto famosa. La visione di una religione come strumento per il buon andamento dello stato (instrumentum regni) verrà poi adottata dal Machiavelli. La superstizione dunque é stato un efficace mezzo per i sovrani allo scopo di ottenere adulazione e mantenere il potere dello stato, molte volte a discapito del popolo. Purtroppo una diretta connessione fra superstizione e ignoranza ha dato alla luce gravi problemi: il terrorismo e il fanatismo “fondamentalista”. Del fanatismo ce ne parla già Voltaire come una degenerazione della superstizione, come emerge dalla conclusione dell’opera “Dizionario Filosofico” in cui spiega che “meno superstizioni, meno fanatismo; meno fanatismo, meno sventure”. Un altro intellettuale illuminista, De Condorcet, nell’opera: “Quadro storico dei progressi dello spirito umano”, definisce la superstizione ostacolo per il progresso umano. Per spiegarci che la scienza non contaminata dalla superstizione ha conosciuto il progresso egli ci parla di Galilei come colui che “fondò la prima scuola in cui le scienze sono state coltivate senza alcuna mescolanza di superstizione, derivante dal pregiudizio”. Beccaria invece nella celeberrima opera: “ De’ Delitti e delle Pene” definisce la superstizione come “quello spirito tenebroso di cabala e d’intrigo”che può sparire solo “in faccia ai lumi”. Dunque ancora una volta un intellettuale illuminista ribadisce la forza civilizzatrice della ragione e la negatività della superstizione. Altri filosofi, oltre a Galilei, hanno creduto che fosse necessaria la separazione fra fede e ragione. Giordano Bruno e Thomas Hobbes hanno infatti affermato una netta separazione fra fede e ragione, dal momento che molte volte la religione rischiava di non promuovere il progresso bensì il regresso rinchiudendo l’uomo all’interno di limiti posti dai suoi dogmi. Ma il critico Illuminati nella sua “Introduzione al Contratto sociale di Jean- Jacques Rousseau” definisce come diretta conseguenza della superstizione, “l’intolleranza”. Egli spiega che “ la via d’uscita che si propone (Rousseau) sta nell’adozione di una religione civile, che non consti di dogmi, ma di articoli fissati dal corpo sovrano e aventi la funzione di regole di socievolezza, senza le quali è impossibile vivere da buon cittadino”. Quindi Voltaire, De Condorcet, Beccaria e Rousseau trovano certamente un punto d’accordo nel dire che la superstizione sia una cosa negativa. Tuttavia gli autori forniscono delle vie d’uscita. Beccaria ci suggerisce la stampa come strumento che dia lucide informazioni in modo da eliminare quel senso di pregiudizio che dà luogo alla superstizione e al fanatismo. Rousseau ci suggerisce una “religione civile” che elimini i dogmi intolleranti delle religioni nazionali. Infine c’è da dire che purtroppo il problema della superstizione, oggi, ci tocca da vicino. Proprio quell’intolleranza e quel fanatismo sono stati causa degli attentati dell’undici settembre duemilauno, e hanno dato origine alla guerra nel marzo del duemilatre, per non parlare degli attentati di Madrid, Londra e di quelli che in Iraq avvengono praticamente quotidianamente.
IL CODICE, LA GENESI DELLE LINGUE
GLOTTOLOGIA
Le lingue si possono vedere come un continuum storico,(dalla Preistoria ecc.), che rifonda la sua identità di volta in volta assumendo riferimento a :
una comunità di parlanti; un popolo; un gruppo di popoli;
Gli Arabi dell’era islamica ossia quei popoli che abitarono prigioni sottomesse all’islam. Nel riferimento ad una nazione abbiamo come esempio l’intera Europa, a partire dall’era napoleonica. Più in generale la situazione dopo la seconda guerra mondiale, che avviene su scala globale. Perciò è difficile per l’uomo contemporaneo capire come sia nato il linguaggio, visto che le lingue attuali somigliano ai linguaggi primitivi non di meno che un grattacielo somiglia ad una caverna.
Non è un caso se la società di linguistica di Parigi dal 1866 decise di non accettare più comunicazioni sulle origini del linguaggio. Un confronto possibile è stato fatto con il linguaggio animale, e in particolare con quello degli scimpanzé che pare abbiano una forma rudimentale di linguaggio.
Sul linguaggio animale e umano è intervenuto Emile Benveniste (di cui ricordiamo I PROBLEMI DI LINGUISTICA GENERALE, Milano 1971-1974) dicendo che la nozione di linguaggio è stata applicata anche al mondo animale. Si sa che è stato impossibile fin qui stabilire che degli animali hanno, anche in forma rudimentale, un tipo di espressione che ha i caratteri e le funzioni del linguaggio umano. Tutte le osservazioni approfondite, fatte sulle comunità animali, tutti i tentativi messi in atto con tecniche varie per provocare o controllare una qualsiasi forma di linguaggio paragonabile a quello dell’uomo sono fallite. Non sembra che quegli animali che emettono vari suoni manifestino in occasione di queste emissioni vocali, dei comportamenti da cui noi possiamo arguire che essi trasmettano dei messaggi parlati .Le condizioni fondamentali di una comunicazione propriamente linguistica sembrano mancare nel mondo degli animali anche superiori. (pag 82)
La questione si pone diversamente per le api o, perlomeno, si deve riconoscere che essa ormai si può porre. Tutto porta a credere, il fatto è osservato da lungo tempo, che le api abbiano un modo di comunicare fra loro. La prodigiosa organizzazione delle loro colonie, le loro attività differenti e coordinate, la loro capacità di reagire collettivamente davanti a situazioni impreviste, fanno supporre che esse siano capaci di scambiare veri messaggi. Le api, infatti, appaiono capaci di produrre e comprendere un vero messaggio che racchiuda parecchi dati. Esse dunque possono registrare relazioni di posizione e di distanza; possono ricordarle, comunicarle, simboleggiandole in diversi comportamenti somatici. Il fatto importante è innanzitutto che esse manifestino un’attitudine a simboleggiare: vi è proprio corrispondenza convenzionale tra il loro comportamento e il dato che esso traduce. Questa differenza tra i comportamenti di comunicazione scoperti fra le api e il nostro linguaggio, si riassume nel termine che ci sembra meglio appropriato a definire il modo di comunicazione usato dalle api; non si tratta infatti di un linguaggio, ma è codice di segnali. Molti caratteri ne risultano:
1 l’immutabilità del contenuto; 2 l’invariabilità del messaggio; 3 il rapporto ad una sola situazione;
4 la natura indecomponibile dell’enunciato la sua trasmissione unilaterale;
Resta tuttavia significativo che questo codice, la sola forma di linguaggio che si sia potuta scoprire fino ad ora fra gli animali, sia propria degli insetti che vivono in società.
IL CODICE
È l’insieme precostituito delle regole che consentono ad un emittente di trasmettere un messaggio ad un ricevente. La produzione del messaggio consiste in una codifica, la comprensione in una decodifica. Da un punto di vista sociolinguistico il codice corrisponde alla lingua standard, i sottocodici corrispondono alle lingue tecniche e settoriali. (Ad esempio il linguaggio della chimica, della giurisprudenza). La parola ala, per esempio, vuol dire: “organo che consente il volo degli uccelli”. Nel sottocodice sportivo del calcio, della pallanuoto significa, ciascuno dei due attaccanti di prima linea che giocano ai margini del campo.
DANZA DELLE API
Uno dei sistemi di comunicazioni più interessanti scoperti nel mondo umano è quello dell’ape da miele europea. Quest’ape di fatto è in grado di comunicare alle sue compagne la posizione di una fonte di cibo particolarmente ricca. Alcuni studiosi hanno scoperto che quando un’ape ha trovato una grossa quantità di cibo e ritorna all’alveare, essa è in grado di comunicare alle sue compagne un messaggio incredibilmente complesso. Il messaggio trasmesso è di fatto un mezzo di reclutamento che indica alle api dell’alveare fino a che distanza devono volare, in che direzione e che tipo di cibo cercare . Il messaggio dell’ape esploratrice viene comunicato mediante schemi di movimento, ossia mediante danze eseguite sulle pareti verticale dell’alveare. Vi sino due tipi di danze: CIRCOLARE e la cosiddetta danza DELL’ADDOME. Se la fonte di cibo si trova entro un raggio di 10 m dall’alveare, l’ape effettua una danza circolare. Per una distanza superiore a 100 m l’ape effettua la danza dell’addome. Nello specifico durante la danza circolare l’ape si fermerà spesso e passerà alle sue compagne, rese attente alla danza, campioni di cibo. Le principali caratteristiche della danza circolare sono: 1 )Viene usata per segnalare che la fonte di cibo è nel raggio di 10 m dall’alveare; 2) l’intensità della danza ( velocità e durata), segnala la ricchezza della fonte di cibo; 3)la fragranza che emana dal’ape danzante segnala alle nuove reclute il tipo di fonte di cibo da ricercare. La danza dell’addome: l’aspetto più sorprendente nel sistema di comunicazione è la loro capacità di indicare fonti di cibo anche a distanza superiore a 100 m. La danza consiste in due traiettorie di movimento più o meno circolari, intervallate da un tratto rettilineo durante il quale l’ape oscilla. La danza oscillante (o dell’addome), comunica le seguenti informazioni: 1) Direzione del sole; 2) Durata, distanza da coprire e infine il grado di movimento nella danza comunica la ricchezza della fonte di cibo. ( Atlante della Vallini pag 80).
GENESI Per saperne di più sull’origine del linguaggio occorre chiedersi quale sia l’atteggiamento cognitivo più affidabile: si può usare il metodo che si basa sulla comparazione delle lingue che presentano somiglianze forti nella grammatica e nel lessico con lo scopo di ricostruire la cosiddetta lingua madre. Il metodo della comparazione ci porta a risalire a qualche migliaio di anni fa, tutt’al più alle ultime fasi del Paleolitico Superiore e alle sue forme culturali evolute (Graffiti delle grotte preistoriche) grafismi convenzionali e veri e propri sintagmi quali uomo, donna, cavallo, bisonte. Vi sono poi due posizioni riguardo l’origine delle lingue: Monogenesi e Poligenesi. Un convinto assertore della Monogenesi fu lo studioso Trombetti che scrisse “Unità d’origine del linguaggio”, Bologna, 1905. In questo studio il Trombetti sostiene che la lingua madre primordiale si sia formata nel tardo paleolitico superiore in un’area euroasiatica, raggiungendo anche un certo sviluppo lessicale e grammaticale distinto in tre fasi: Periodo delle radici: le parole si presentano in forma monosillabica invariabile. Periodo dei temi: le parole si presentano con ampliamenti vocalici e consonantici. Periodo della flessione: le parole mostrano ulteriori espansioni con valore grammaticale. (N.B. Vi sono dei tentativi, ma non si trova una propria teoria del linguaggio.
Le lingue si possono vedere come un continuum storico,(dalla Preistoria ecc.), che rifonda la sua identità di volta in volta assumendo riferimento a :
una comunità di parlanti; un popolo; un gruppo di popoli;
Gli Arabi dell’era islamica ossia quei popoli che abitarono prigioni sottomesse all’islam. Nel riferimento ad una nazione abbiamo come esempio l’intera Europa, a partire dall’era napoleonica. Più in generale la situazione dopo la seconda guerra mondiale, che avviene su scala globale. Perciò è difficile per l’uomo contemporaneo capire come sia nato il linguaggio, visto che le lingue attuali somigliano ai linguaggi primitivi non di meno che un grattacielo somiglia ad una caverna.
Non è un caso se la società di linguistica di Parigi dal 1866 decise di non accettare più comunicazioni sulle origini del linguaggio. Un confronto possibile è stato fatto con il linguaggio animale, e in particolare con quello degli scimpanzé che pare abbiano una forma rudimentale di linguaggio.
Sul linguaggio animale e umano è intervenuto Emile Benveniste (di cui ricordiamo I PROBLEMI DI LINGUISTICA GENERALE, Milano 1971-1974) dicendo che la nozione di linguaggio è stata applicata anche al mondo animale. Si sa che è stato impossibile fin qui stabilire che degli animali hanno, anche in forma rudimentale, un tipo di espressione che ha i caratteri e le funzioni del linguaggio umano. Tutte le osservazioni approfondite, fatte sulle comunità animali, tutti i tentativi messi in atto con tecniche varie per provocare o controllare una qualsiasi forma di linguaggio paragonabile a quello dell’uomo sono fallite. Non sembra che quegli animali che emettono vari suoni manifestino in occasione di queste emissioni vocali, dei comportamenti da cui noi possiamo arguire che essi trasmettano dei messaggi parlati .Le condizioni fondamentali di una comunicazione propriamente linguistica sembrano mancare nel mondo degli animali anche superiori. (pag 82)
La questione si pone diversamente per le api o, perlomeno, si deve riconoscere che essa ormai si può porre. Tutto porta a credere, il fatto è osservato da lungo tempo, che le api abbiano un modo di comunicare fra loro. La prodigiosa organizzazione delle loro colonie, le loro attività differenti e coordinate, la loro capacità di reagire collettivamente davanti a situazioni impreviste, fanno supporre che esse siano capaci di scambiare veri messaggi. Le api, infatti, appaiono capaci di produrre e comprendere un vero messaggio che racchiuda parecchi dati. Esse dunque possono registrare relazioni di posizione e di distanza; possono ricordarle, comunicarle, simboleggiandole in diversi comportamenti somatici. Il fatto importante è innanzitutto che esse manifestino un’attitudine a simboleggiare: vi è proprio corrispondenza convenzionale tra il loro comportamento e il dato che esso traduce. Questa differenza tra i comportamenti di comunicazione scoperti fra le api e il nostro linguaggio, si riassume nel termine che ci sembra meglio appropriato a definire il modo di comunicazione usato dalle api; non si tratta infatti di un linguaggio, ma è codice di segnali. Molti caratteri ne risultano:
1 l’immutabilità del contenuto; 2 l’invariabilità del messaggio; 3 il rapporto ad una sola situazione;
4 la natura indecomponibile dell’enunciato la sua trasmissione unilaterale;
Resta tuttavia significativo che questo codice, la sola forma di linguaggio che si sia potuta scoprire fino ad ora fra gli animali, sia propria degli insetti che vivono in società.
IL CODICE
È l’insieme precostituito delle regole che consentono ad un emittente di trasmettere un messaggio ad un ricevente. La produzione del messaggio consiste in una codifica, la comprensione in una decodifica. Da un punto di vista sociolinguistico il codice corrisponde alla lingua standard, i sottocodici corrispondono alle lingue tecniche e settoriali. (Ad esempio il linguaggio della chimica, della giurisprudenza). La parola ala, per esempio, vuol dire: “organo che consente il volo degli uccelli”. Nel sottocodice sportivo del calcio, della pallanuoto significa, ciascuno dei due attaccanti di prima linea che giocano ai margini del campo.
DANZA DELLE API
Uno dei sistemi di comunicazioni più interessanti scoperti nel mondo umano è quello dell’ape da miele europea. Quest’ape di fatto è in grado di comunicare alle sue compagne la posizione di una fonte di cibo particolarmente ricca. Alcuni studiosi hanno scoperto che quando un’ape ha trovato una grossa quantità di cibo e ritorna all’alveare, essa è in grado di comunicare alle sue compagne un messaggio incredibilmente complesso. Il messaggio trasmesso è di fatto un mezzo di reclutamento che indica alle api dell’alveare fino a che distanza devono volare, in che direzione e che tipo di cibo cercare . Il messaggio dell’ape esploratrice viene comunicato mediante schemi di movimento, ossia mediante danze eseguite sulle pareti verticale dell’alveare. Vi sino due tipi di danze: CIRCOLARE e la cosiddetta danza DELL’ADDOME. Se la fonte di cibo si trova entro un raggio di 10 m dall’alveare, l’ape effettua una danza circolare. Per una distanza superiore a 100 m l’ape effettua la danza dell’addome. Nello specifico durante la danza circolare l’ape si fermerà spesso e passerà alle sue compagne, rese attente alla danza, campioni di cibo. Le principali caratteristiche della danza circolare sono: 1 )Viene usata per segnalare che la fonte di cibo è nel raggio di 10 m dall’alveare; 2) l’intensità della danza ( velocità e durata), segnala la ricchezza della fonte di cibo; 3)la fragranza che emana dal’ape danzante segnala alle nuove reclute il tipo di fonte di cibo da ricercare. La danza dell’addome: l’aspetto più sorprendente nel sistema di comunicazione è la loro capacità di indicare fonti di cibo anche a distanza superiore a 100 m. La danza consiste in due traiettorie di movimento più o meno circolari, intervallate da un tratto rettilineo durante il quale l’ape oscilla. La danza oscillante (o dell’addome), comunica le seguenti informazioni: 1) Direzione del sole; 2) Durata, distanza da coprire e infine il grado di movimento nella danza comunica la ricchezza della fonte di cibo. ( Atlante della Vallini pag 80).
GENESI Per saperne di più sull’origine del linguaggio occorre chiedersi quale sia l’atteggiamento cognitivo più affidabile: si può usare il metodo che si basa sulla comparazione delle lingue che presentano somiglianze forti nella grammatica e nel lessico con lo scopo di ricostruire la cosiddetta lingua madre. Il metodo della comparazione ci porta a risalire a qualche migliaio di anni fa, tutt’al più alle ultime fasi del Paleolitico Superiore e alle sue forme culturali evolute (Graffiti delle grotte preistoriche) grafismi convenzionali e veri e propri sintagmi quali uomo, donna, cavallo, bisonte. Vi sono poi due posizioni riguardo l’origine delle lingue: Monogenesi e Poligenesi. Un convinto assertore della Monogenesi fu lo studioso Trombetti che scrisse “Unità d’origine del linguaggio”, Bologna, 1905. In questo studio il Trombetti sostiene che la lingua madre primordiale si sia formata nel tardo paleolitico superiore in un’area euroasiatica, raggiungendo anche un certo sviluppo lessicale e grammaticale distinto in tre fasi: Periodo delle radici: le parole si presentano in forma monosillabica invariabile. Periodo dei temi: le parole si presentano con ampliamenti vocalici e consonantici. Periodo della flessione: le parole mostrano ulteriori espansioni con valore grammaticale. (N.B. Vi sono dei tentativi, ma non si trova una propria teoria del linguaggio.
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appunti di glottologia
GLOTTOLOGIA
CAMBIAMENTO LINGUISTICO:
è l’insieme delle modificazioni che ogni lingua subisce nel corso del tempo a ogni livello (fonologico,morfologico,lessicale, semantico, sintattico). Il cambiamento o mutamento linguistico è oggetto privilegiato della linguistica storica. La LINGUISTICA STORICA è una branca della linguistica interessata alla dimensione diacronica delle lingue che ha come oggetto di studio i fenomeni legati al cambiamento linguistico; la documentazione e la ricostruzione delle fasi antiche di una lingua; i rapporti fra le lingue geneticamente imparentate; l’etimologia.
La distinzione fra sincronia e diacronia teorizzata da Ferdinand De Saussure è uno dei principi della linguistica moderna. Sincronia e Diacronia non sono proprietà delle lingue ma punti di vista dai quali si possono considerare i fatti linguistici: la prospettiva diacronica li considera sul’asse della simultaneità, cioè per come si presentano in un dato momento a prescindere dall’evoluzione che li ha portati ad essere in quel modo. Un tipico esempio di ANALISI DIACRONICA è la ricostruzione della etimologia di una parola, mentre, nel descrivere una certa struttura sintattica dell’italiano di oggi si fa un’ANALISI SINCRONICA. Tuttavia non va confuso sincronico con attuale e diacronico con storico. Infatti si può compiere uno studio sincronico in fatti linguistici non attuali: ad es. descrivendo una certa struttura sintattica del latino; d’altra parte uno studio diacronico non è necessariamente storico nel senso corrente del termine che implica valutare il contesto sociale culturale politico ecc. in cui un fatto si inserisce. La linguistica dell’800 interessata soprattutto al mutamento linguistico e ai rapporti di parentela fra le lingue, è stata prevalentemente diacronica. I principali indirizzi del 900 hanno invece privilegiato la sincronia aderendo all’idea di De Saussure che la prospettiva sincronica è prioritaria sia per il linguista poiché è quella che consente di vedere la lingua nella sua sistematicità e di capirne il funzionamento sia per il parlante che nell’apprendere e nell’usare la lingua ha presente lo stato sincronico del sistema linguistico, indipendentemente dalla sua evoluzione, ad es. che la parola CANE derivi dal latino CANEM è irrilevante ai fini del’apprendimento e dell’uso di questa parola. Il tempo è infatti l’agente fondamentale del cambiamento linguistico.
Secondo il mito biblico della torre di Babele (Genesi; 11), la lingua primitiva dell’umanità sarebbe stata l’ebraico, cioè la lingua in cui Dio parlava ad Adamo, e gli uomini avrebbero cominciato a parlare lingue diverse per effetto della punizione divina lanciata da Dio contro il blasfemo tentativo dell’uomo di costruire una torre che giungesse fino al cielo. GENESI 11, Torre di Babele: Tutta la terra aveva una sola lingua e le stesse parole. Emigrando dall’Oriente gli uomini capitarono in una pianura nel paese di Sennahar (Babilonia) e vi si stabilirono. Si dissero l’un l’altro: “venite , facciamoci i mattoni e cuociamoli al fuoco”. Il mattone servì a loro da pietra e il bitume da cemento. Poi dissero: “Venite, costruiamoci una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo e facciamoci un nome per non disperderci su tutta la terra”. Ma il Signore scese a vedere la città e la torre che gli uomini stavano costruendo. Il Signore disse: “ecco essi sono un solo popolo e hanno tutti una lingua sola; questo è l’inizio della loro opera e ora quanto avranno in progetto di fare non sarà loro impossibile. “scendiamo dunque, e confondiamo la loro lingua perché non comprendano più l’uno la lingua dell’altro.” Il Signore li disperse di là su tutta la terra ed essi cessarono di costruire città. Per questo la si chiamò Babele perché là il Signore confuse le lingue di tutta la terra.
Questa spiegazione della diversità delle lingue fu accettata per molti secoli. Ipotesi alternative iniziarono ad essere formulate dal Rinascimento: tra queste ve ne furono alcune fantasiose come quella di un erudito del “5oo chiamato Gropius Bekanus che sostenne che il fiammingo fosse la lingua originaria di tutte le lingue del mondo. Altre ipotesi anticiparono scoperte successive:
Leibniz ipotizzò una famiglia di lingue giafetiche prefigurando quella che più tardi verrà chiamata famiglia linguistica indoeuropea. (Giafetico fa riferimento a Josef, patriarca biblico, la cui discendenza secondo la Bibbia, popolò l’Europa e l’Asia. Solo agli inizi dell 800 con lo studio della parentela genealogica delle lingue e del loro mutamento attraverso il tempo si iniziò il vero e proprio studio del cambiamento linguistico, a cui si dette il nome di linguistica storica o storico-comparativa. Ma già molto tempo prima era stata abbandonata la spiegazione biblica: ad es. il De Condillac 1715-1780 ipotizzò che il linguaggio avesse avuto origine da suoni primitivi, principalmente grida, espressioni di emozioni. Ma gli studiosi dell 800 non si preoccuparono più di spiegare come e perché fossero nati suoni e parole delle lingue originarie, ma si interessarono unicamente a ricostruirli sulla base della comparazione delle lingue da esse derivate. Del resto, come abbiamo osservato, la Società Linguistica di Parigi, all’atto della sua fondazione decise che non sarebbero state accettate comunicazioni che riguardavano l’origine del linguaggio. Oggi, il problema dell’origine del linguaggio è tornato di moda, grazie al supporto fornito dagli studi di biologia e in particolare di genetica. Una delle ipotesi più comunemente accettate è che l’origine del linguaggio nella specie umana sia, almeno in parte, dovuto all’aumento proporzionale del peso del cervello, rispetto all’intero peso corporeo durante l’evoluzione dell’ homo sapiens. Questa ipotesi è stata scartata da alcuni sulla base ad es. del fatto che i delfini hanno un cervello di dimensioni paragonabile a quello umano, ma certo non posseggono un sistema di comunicazione comparabile al linguaggio umano. In sostanza, il problema dell’origine del linguaggio umano non può essere considerato scientifico e resta distinto dal problema della ricostruzione delle lingue originarie. Inoltre, occorre tener presente che non esistono lingue più primitive di altre: anche popolazioni di cultura molto primitiva, almeno rispetto agli standard occidentali, come gli indigeni dell’Amazzonia e della Nuova Guinea parlano lingue ugualmente complesse come quelle dei popoli di più antica civilizzazione. Lo stesso vale per le lingue originarie di una determinata famiglia linguistica: esse sono costruite sulla base delle lingue che ne discendono, e quindi non dimostrano alcun tipo particolare di primitività. Un altro tratto che distingue la linguistica moderna dai suoi predecessori pre-ottocenteschi è la rinuncia a qualunque ipotesi catastrofista per spiegare il mutamento linguistico, come il mito babelico che vede la differenziazione delle lingue per punizione divina, oppure, le spiegazioni dell’umanista del 400 Flavio Biondo che sosteneva la trasformazione del latino nell’italiano per effetto delle invasioni barbariche dell’Italia, specialmente quella longobarda. Un altro umanista poi, Leonardo Bruni, sostenne che l’italiano era sempre esistito ed era semplicemente la forma volgare parlata dal popolo, anche in epoca latina.
Questi sono tutti tentativi di assumere la necessità di una causa esterna del mutamento linguistico.
Ma è Dante il primo ad individuare la causa dei mutamenti linguistici nello scorrere del tempo (De Vulgari Eloquentia, libro I, cap 9)
La linguistica storica assume una posizione analoga a quella di Dante:il tempo in sé stesso è sufficiente a produrre il mutamento linguistico.
Il trattato di Dante, composto probabilmente fra il 1804 e il 1808, è scritto in Latino perché indirizzato ai dotti sostenitori della lingua di Roma. Doveva esser formato da 4 libri ma rimase interrotto al capitolo 14 del II libro. Qui Dante si propone di ricercare quale debba essere la forma nobile e perfetta della lingua letteraria italiana e di dettare le norme per il suo uso. Secondo Dante dopo la confusione delle lingue al tempo della torre di Babele l’unico linguaggio usato era l’ebraico iniziato da Abramo con la parola EL che significa Dio. Le genti che vennero in Europa introdussero nella parte meridionale le tre lingue: lingua d’oc d’oil e del si; nelle regioni settentrionali introdussero le lingue germaniche; nelle regioni orientali introdussero il greco. La disparità fra le lingue portò, poi, alla ricerca di un linguaggio comune detto grammatico o letterario, cioè il latino universale immutabile che segue, secondo Dante, e non precede i volgari, i quali, perciò non dovrebbero essere chiamati lingue neolatine. Dante riteneva che a somiglianza del latino anche in Italia si dovesse avere un volgare illustre che assorbendo i 14 dialetti della penisola, splendesse di luce propria su di essi; questo volgare illustre detto anche cardinale, cioè cardine base di tutti gli altri o aulico, cioè lingua di corte o curiale, cioè quello della curia dove si amministra, si giudica, si applicano leggi. Ma Dante non risolve il problema, perché accenna piuttosto vagamente all’esistenza di un volgare illustre che si era formato alla corte palermitana di Federico II con il concorso di tutte le parlate d’Italia senza risiedere in nessuna di esse.
Nel II libro, Dante tratta delle 3 specie di stili: 1) stile tragico: è quello della canzone, a cui si addice il volgare illustre, che deve essere usato solo dagli uomini di scienza e di ingegno, scrittori e poeti che trattino argomenti elevati, quali l’amore , le virtù , le armi; 2) stile comico: è quello della ballata e del sonetto; 2) stile elegiaco: è quello delle forme liriche più modeste, a cui conviene un volgare più dimesso, adoperato per argomenti meno elevati. Dante parla poi di versi in particolare del quinario, settenario e endecasillabo e della struttura metrica della canzone, ritenuta la forma lirica più nobile. Il De Vulgari Eloquentia , che è il primo trattato di filologia e poetica nelle lingue romanze, ha notevole interesse scientifico, anche se, accanto ad alcune intuizioni accolte dalla linguistica moderna, si trovano delle ingenuità, delle idee e pregiudizi tipici del medioevo. Ciò nonostante, quest’opera deve essere considerata da una parte documento del formarsi spirituale della nazionalità italiana e dall’altra soprattutto documento della formazione artistica di Dante, che in quel libro “pose e difese un ideale di lingua e di stile, il volgare illustre, conforme al proprio sentire, quale fu in tempi recenti e con diverso sentire per il Manzoni l’ideale della lingua fiorentina”. (B. Croce)
De Vulgari Eloquentia, libro I, cap. 4 Dante dice: -Solo all’uomo è stato dunque concesso di parlare, come appare da quello che fin qui si è visto. Ora credo di dover indagare a che per primo fra gli uomini, sua data la lingua, e che abbia detto per prima cosa, a chi, dove, quando e infine in quale idioma siano state pronunciate le prime parole. Secondo quello che dice il libro della Genesi al principio, dove la sacra scrittura tratta delle origini dell’uomo, sarebbe stata una donna a parlare prima di tutti, cioè la presuntuosissima Eva quando rispose alle tentazioni del diavolo “noi ci nutriamo dei frutti degli alberi che sono in paradiso, ma il frutto dell’albero, che si trova nel mezzo del Paradiso, Dio ci ha ordinato di non mangiarlo e toccarlo perché non ci accada di morire.” Anche se nelle scritture si trova che ad aver parlato per prima sia stata una donna è ugualmente più ragionevole credere che ad aver parlato per prima sia stato un uomo. In effetti non è congruo pensare che un così egregio atto del genere umano sia opera prima di una donna che di un uomo, ritengo perciò ragionevole che allo stesso Adamo sia stato di parlare per primo, da Lui, che proprio allora lo aveva plasmato. Che cosa poi la voce del primo parlante abbia detto per la prima volta non dubito che a ogni uomo saggio venga subito in mente essersi trattato di Dio, ovvero El (ebraico) in forma di domanda o di risposta. Sembra assurdo e irrazionale che dall’uomo sia stato nominato qualcos’altro prima di Dio, poiché da lui e per lui fu creato, infatti, come dopo la ribellione dell’umano genere ognuno comincia a parlare con un “ahi” così è ragionevole che le parole dette prima comincino dalla gioia e, poiché non vi è alcuna gioia fuori di Dio ma tutta è in Dio, ma lo stesso Dio è tutta gioia, ne consegue che il primo parlante per prima cosa abbia detto innanzitutto “Dio”. Nasce ora un problema: visto che abbiamo detto sopra che il primo uomo parlò in forma di risposta, rispose egli a Dio? Infatti se rispose a Dio, allora, avrebbe parlato per primo Dio e ciò sarebbe in contraddizione con quanto abbiamo già accennato. Si può tuttavia replicare che poté ben rispondere a una domanda di Dio, ma non per questo Dio dové aver parlato proprio in quella che è per noi una lingua. Chi potrebbe infatti dubitare che tutto sia pieghevole al centro di Dio, che ogni cosa fa, conserva e governa? Perciò se a tanti perturbamenti l’aria si muove per volere della natura inferiore che è ministra e creatura di Dio sì che rimbomba il tuono, scocca il lampo, scende la pioggia, cade la neve, precipita la grandine, non poteva forse essa muoversi al comando di Dio per far risuonare parole, quando le scandiva e le distingueva proprio Colui, che cose ben più grandi separò e distinse. A questo e ad altri dubbi credo, dunque, che bastino queste considerazioni.-
De Vulgari Eloquentia, libro I, cap. 5 “ Il luogo della parola”:
-Ritenendo, non senza ragionevoli motivi desunti tanto da quanto già detto in precedenza che da quello che si dirà più avanti, che il primo uomo abbia per la prima volta indirizzato la sua parola a Dio stesso, preciso, sviluppando il ragionamento, che il primo parlante parlò subito, appena ricevuto il soffio dello spirito di vita. Credo infatti che nell’uomo è più specifico farsi sentire che sentire purché sia sentito e senta in quanto uomo. Se perciò, quel creatore, principio di perfezione e d’amore, col suo spirito, riempì di ogni perfezione il primo uomo, mi sembra ragionevole che il più nobile degli esseri viventi abbia cominciato prima a farsi sentire che a sentire. Se si controbbiettasse che non occorreva che Adamo parlasse perché era solo e perché Dio conosce senza bisogno di parole tutti i nostri segreti, persino prima di noi stessi, dirò, con quel rispetto che è d’obbligo quando si discute con la summa volontà che per quanto Dio sapesse anzi,
presapesse, il pensiero del primo parlante senza bisogno di parole, tuttavia volle che quello parlasse perché esibendo un tal dono rendesse gloria a Colui che glielo aveva dato gratuitamente. È perciò da credere che sia in noi d’origine divina, la gioia che proviamo nell’attuare a giusto fine le nostre specifiche caratteristiche. E da questo possiamo pienamente dedurre in quale luogo sia stata emessa la prima parola: perché se l’uomo è stato creato fuori dal Paradiso, avrà parlato per la prima volta fuori di esso, e se invece è stato creato dentro allora è provato che la prima parola fu pronunciata dentro di esso.-
De Vulgari Eloquentia, libro I, cap. 6: Poiché la vicenda umana si svolge in moltissimi e ben diversi idiomi, così che molti con molti si intendono tanto con le parole che senza, sarà bene ora muovere alla ricerca di quell’idioma che si pensa abbia usato l’uomo che non ebbe né madre, né balia e non conobbe né fanciullezza né adolescenza. Questo è uno di quei casi in cui una qualsiasi piccolo villaggio diventa una città, grandissima patria della maggior parte dei figli di Adamo. Infatti chiunque è tanto stolto da credere il suo paese nativo il più bello che esista al mondo, costui preferisce anche più di ogni altro il proprio volgare, cioè la propria lingua materna e per conseguenza crede che sia stato proprio quello usato da Adamo. Ma io che ho per patria il mondo come i pesci l’acqua, per quanto abbia bevuto in Arno prima ancora di mettere i denti e ami Firenze al punto che avendola troppo amata soffro ingiustamente l’esilio, io debbo soppesare il giudizio più con la ragione che col sentimento. E sebbene per il mio piacere e per l’appagamento dei miei sensi non ci sia in terra luogo più bello di Firenze avendo letto e riletto le pagine dei libri dei poeti e degli altri scrittori la dove il mondo è descritto nella sua complessità e nelle sue parti, e ripetutamente pensato tra me e me le differenti varietà dei luoghi della terra e la loro posizione rispetto ai due poli e all’equatore ne sono convinta e ora con sicurezza sostengo che sono molte le regioni e le città più nobili e più belle della Toscana e di Firenze di cui sono nativo e cittadino e quindi che ci sono molte stirpi e genti che usano una lingua più piacevole più funzionale di quella degli italiani. Tornando dunque al nostro argomento dico che da Dio fu creato insieme con la prima anima una data forma di linguaggio e dico forma sia quanto ai vocaboli delle cose che quanto alla loro sintassi e morfologia; questa forma sarebbe usata ancora oggi da ogni lingua che parla se per colpa della presunzione umana essa non fosse stata dispersa come vedremo. In questa forma di linguaggio parlò Adamo; in questa parlarono i suoi discendenti fino alla costruzione della Torre di Babele, che significa “Torre della Confusione”; questa hanno ereditato i figli di Eber che da lui furono chiamati Ebrei; Soltanto a costoro rimase dopo Babele affinché il nostro redentore, che da essi doveva nascere secondo la carne, potesse usare non una lingua della confusione ma quella della grazia. Fu dunque l’idioma ebraico che fabbricò le labbra del primo parlante.
De Vulgari Eloquentia, libro I, cap. 7: Dunque l’uomo presunse nel suo cuore sotto la suggestione del gigante Membrat di potere con la propria arte non solo superare la natura ma il fattore stesso della natura, Dio, e cominciò ad edificare una torre che in seguito fu detta Babele, cioè confusione, con la quale sperava di salire al cielo intendendo così non solo di eguagliare ma anche di superare il suo creatore. Quasi tutto il genere umano era dunque convenuto a quell’opera di iniquità: alcuni dirigevano i la lavori, altri li progettavano, alcuni costruivano i muri altri li squadravano, livellandoli e intonacandoli con le spatole; c’era chi attendeva a spaccare le pietre e chi a trasportarle per mare e per terra, altri gruppi erano addetti a diverse mansioni, quando dal cielo furono colpiti da una così grande confusione che mentre tutti usavano in quel cantiere una sola identica lingua, differenziati in molte lingue, dovettero rinunciare all’impresa e mai più poterono ritrovarsi in
un’opera comune, infatti solo a quelli che facevano uno stesso lavoro rimase una lingua identica; cioè una per tutti gli architetti; una per tutti quelli che trasportavano i massi ; una per tutti quelli che li lavoravano e così accadde per ogni gruppo di addetti. Di conseguenza quante erano all’opera le differenti competenze, altrettanti furono gli idiomi in cui si divise il genere umano e quanto più importante era il lavoro che si faceva, tanto più cominciarono a parlare una lingua razza e barbara. L’idioma sacro rimase solo a quelli che erano presenti, né avevano apprezzato l’impresa ma anzi, pesantemente detestandola deridevano la stoltezza di chi lavorava. Questa minima parte, minima quanto a numero, fu, a mio giudizio della gente di Sion, il terzo figlio di Noè, da questa nacque il popolo di Israele che usò quell’antichissima lingua fino al tempo della sua dispersione.
De Vulgari Eloquentia, libro I, cap. 8: Credo, non senza buon argomenti che dalla su ricordata confusione delle lingue gli uomini siano stati allora per la prima volta dispersi in tutti gli angoli del mondo, nelle zone climaticamente più abitabili e in quelle più remote e poiché la radice principale dell’umana progenie è piantata nelle terre orientali e da lì, da una parte all’altra la nostra razza si è estesa e diffusa attraverso molteplici tralci e infine è pervenuta alle terre d’occidente forse allora per la prima volta gole di esseri razionali si abbeverarono ai fiumi di tutta Europa, o almeno ad alcuni di essi. Ma, sia che stranieri fossero allora arrivati per la prima volta in Europa o che di essa nativi ritornassero gli uomini, portarono con sé un idioma triplice: di essi alcuni occuparono le regioni meridionali , altri quelle settentrionali d’Europa; il terzo gruppo oggi chiamata greco occupò terre in parti europee e in parti europee e in parti asiatiche. In seguito, come vedremo più avanti da uno stesso e identico idioma ricevuto nella confusione punitrice trassero origine diversi volgari. Infatti tutta la zona che va dalle foci del Danubio ebbe un unico idioma peraltro, poi, distintosi nei diversi volgari degli Slavi, degli Ungheresi, i Tedeschi, dei Sassoni, degli Inglesi e delle molteplici altre nazioni che conservano della comune origine quasi solo questo segno: che tutti, più o meno i suddetti rispondono affermativamente a una domanda con “iò”. (Si). Da dove comincia il territorio di questo idioma, cioè dai confini dell’Ungheria verso Oriente un’altra lingua occupò tutto quello che da quel punto si chiama Europa e si è estesa anche oltre. Tutta quella parte di Europa, poi, che resta fuori da questi due idiomi fu occupata da un terzo, peraltro, ora tripartito infatti alcuni dicono per affermare “oc”, “d’oil”, del “si”, e cioè gli Spagnoli, i Francesi e gli Italiani. Ma il segno che i volgari di queste tre popolazioni traggono origine da uno stesso idioma è subito chiaro perché nominano molte nazioni con le stesse parole come Dio, cielo, amore, mare, terra ecc. Di queste genti quelle con lingua d’oc occupano la parte occidentale dell’Europa meridionale cominciando dai confini dei genovesi. Quelle della lingua del si si dispongono dai suddetti confini verso oriente fino a quel promontorio d’Italia da cui comincia l’insenatura dell’Adriatico e arrivano fino in Sicilia. Infine le popolazioni della lingua d’oil sono in un certo senso a nord di queste: infatti hanno a oriente i Germani e a ovest e a nord sono chiusi dal mare d’Inghilterra e all’estremo limite hanno i Monti D’Aragona; a mezzogiorno confinano con i Provenzali e con lo spluviale delle Alpi Pennine.
De Vulgari Eloquentia, libro I, cap. 9: Cambiamento Linguistico Ora debbo mettere alla prova tutte le risorse della mia mente perché voglio misurarmi con un argomento in cui non mi soccorre alcuna autorità e cioè con la variazione seguita dall’unico e identico idioma nazionale. E, poiché si va meglio e più rapidamente per la vie più note, ci metteremo sulle tracce del solo nostro idioma, tralasciando gli altri: infatti ciò che è causa razionale di uno può ben essere causa anche degli altri. Dunque la lingua di cui andiamo trattando è triplice come sopra si è detto: infatti alcuni dicono “oc”, alcuni “oil”, altri “si”. E che sia stata una lingua unica all’inizio della dispersione appare dal fatto che concordiamo in molte parole come mostrano i maestri di eloquenza …………………………………………………]]]]]]]
CAMBIAMENTO LINGUISTICO:
è l’insieme delle modificazioni che ogni lingua subisce nel corso del tempo a ogni livello (fonologico,morfologico,lessicale, semantico, sintattico). Il cambiamento o mutamento linguistico è oggetto privilegiato della linguistica storica. La LINGUISTICA STORICA è una branca della linguistica interessata alla dimensione diacronica delle lingue che ha come oggetto di studio i fenomeni legati al cambiamento linguistico; la documentazione e la ricostruzione delle fasi antiche di una lingua; i rapporti fra le lingue geneticamente imparentate; l’etimologia.
La distinzione fra sincronia e diacronia teorizzata da Ferdinand De Saussure è uno dei principi della linguistica moderna. Sincronia e Diacronia non sono proprietà delle lingue ma punti di vista dai quali si possono considerare i fatti linguistici: la prospettiva diacronica li considera sul’asse della simultaneità, cioè per come si presentano in un dato momento a prescindere dall’evoluzione che li ha portati ad essere in quel modo. Un tipico esempio di ANALISI DIACRONICA è la ricostruzione della etimologia di una parola, mentre, nel descrivere una certa struttura sintattica dell’italiano di oggi si fa un’ANALISI SINCRONICA. Tuttavia non va confuso sincronico con attuale e diacronico con storico. Infatti si può compiere uno studio sincronico in fatti linguistici non attuali: ad es. descrivendo una certa struttura sintattica del latino; d’altra parte uno studio diacronico non è necessariamente storico nel senso corrente del termine che implica valutare il contesto sociale culturale politico ecc. in cui un fatto si inserisce. La linguistica dell’800 interessata soprattutto al mutamento linguistico e ai rapporti di parentela fra le lingue, è stata prevalentemente diacronica. I principali indirizzi del 900 hanno invece privilegiato la sincronia aderendo all’idea di De Saussure che la prospettiva sincronica è prioritaria sia per il linguista poiché è quella che consente di vedere la lingua nella sua sistematicità e di capirne il funzionamento sia per il parlante che nell’apprendere e nell’usare la lingua ha presente lo stato sincronico del sistema linguistico, indipendentemente dalla sua evoluzione, ad es. che la parola CANE derivi dal latino CANEM è irrilevante ai fini del’apprendimento e dell’uso di questa parola. Il tempo è infatti l’agente fondamentale del cambiamento linguistico.
Secondo il mito biblico della torre di Babele (Genesi; 11), la lingua primitiva dell’umanità sarebbe stata l’ebraico, cioè la lingua in cui Dio parlava ad Adamo, e gli uomini avrebbero cominciato a parlare lingue diverse per effetto della punizione divina lanciata da Dio contro il blasfemo tentativo dell’uomo di costruire una torre che giungesse fino al cielo. GENESI 11, Torre di Babele: Tutta la terra aveva una sola lingua e le stesse parole. Emigrando dall’Oriente gli uomini capitarono in una pianura nel paese di Sennahar (Babilonia) e vi si stabilirono. Si dissero l’un l’altro: “venite , facciamoci i mattoni e cuociamoli al fuoco”. Il mattone servì a loro da pietra e il bitume da cemento. Poi dissero: “Venite, costruiamoci una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo e facciamoci un nome per non disperderci su tutta la terra”. Ma il Signore scese a vedere la città e la torre che gli uomini stavano costruendo. Il Signore disse: “ecco essi sono un solo popolo e hanno tutti una lingua sola; questo è l’inizio della loro opera e ora quanto avranno in progetto di fare non sarà loro impossibile. “scendiamo dunque, e confondiamo la loro lingua perché non comprendano più l’uno la lingua dell’altro.” Il Signore li disperse di là su tutta la terra ed essi cessarono di costruire città. Per questo la si chiamò Babele perché là il Signore confuse le lingue di tutta la terra.
Questa spiegazione della diversità delle lingue fu accettata per molti secoli. Ipotesi alternative iniziarono ad essere formulate dal Rinascimento: tra queste ve ne furono alcune fantasiose come quella di un erudito del “5oo chiamato Gropius Bekanus che sostenne che il fiammingo fosse la lingua originaria di tutte le lingue del mondo. Altre ipotesi anticiparono scoperte successive:
Leibniz ipotizzò una famiglia di lingue giafetiche prefigurando quella che più tardi verrà chiamata famiglia linguistica indoeuropea. (Giafetico fa riferimento a Josef, patriarca biblico, la cui discendenza secondo la Bibbia, popolò l’Europa e l’Asia. Solo agli inizi dell 800 con lo studio della parentela genealogica delle lingue e del loro mutamento attraverso il tempo si iniziò il vero e proprio studio del cambiamento linguistico, a cui si dette il nome di linguistica storica o storico-comparativa. Ma già molto tempo prima era stata abbandonata la spiegazione biblica: ad es. il De Condillac 1715-1780 ipotizzò che il linguaggio avesse avuto origine da suoni primitivi, principalmente grida, espressioni di emozioni. Ma gli studiosi dell 800 non si preoccuparono più di spiegare come e perché fossero nati suoni e parole delle lingue originarie, ma si interessarono unicamente a ricostruirli sulla base della comparazione delle lingue da esse derivate. Del resto, come abbiamo osservato, la Società Linguistica di Parigi, all’atto della sua fondazione decise che non sarebbero state accettate comunicazioni che riguardavano l’origine del linguaggio. Oggi, il problema dell’origine del linguaggio è tornato di moda, grazie al supporto fornito dagli studi di biologia e in particolare di genetica. Una delle ipotesi più comunemente accettate è che l’origine del linguaggio nella specie umana sia, almeno in parte, dovuto all’aumento proporzionale del peso del cervello, rispetto all’intero peso corporeo durante l’evoluzione dell’ homo sapiens. Questa ipotesi è stata scartata da alcuni sulla base ad es. del fatto che i delfini hanno un cervello di dimensioni paragonabile a quello umano, ma certo non posseggono un sistema di comunicazione comparabile al linguaggio umano. In sostanza, il problema dell’origine del linguaggio umano non può essere considerato scientifico e resta distinto dal problema della ricostruzione delle lingue originarie. Inoltre, occorre tener presente che non esistono lingue più primitive di altre: anche popolazioni di cultura molto primitiva, almeno rispetto agli standard occidentali, come gli indigeni dell’Amazzonia e della Nuova Guinea parlano lingue ugualmente complesse come quelle dei popoli di più antica civilizzazione. Lo stesso vale per le lingue originarie di una determinata famiglia linguistica: esse sono costruite sulla base delle lingue che ne discendono, e quindi non dimostrano alcun tipo particolare di primitività. Un altro tratto che distingue la linguistica moderna dai suoi predecessori pre-ottocenteschi è la rinuncia a qualunque ipotesi catastrofista per spiegare il mutamento linguistico, come il mito babelico che vede la differenziazione delle lingue per punizione divina, oppure, le spiegazioni dell’umanista del 400 Flavio Biondo che sosteneva la trasformazione del latino nell’italiano per effetto delle invasioni barbariche dell’Italia, specialmente quella longobarda. Un altro umanista poi, Leonardo Bruni, sostenne che l’italiano era sempre esistito ed era semplicemente la forma volgare parlata dal popolo, anche in epoca latina.
Questi sono tutti tentativi di assumere la necessità di una causa esterna del mutamento linguistico.
Ma è Dante il primo ad individuare la causa dei mutamenti linguistici nello scorrere del tempo (De Vulgari Eloquentia, libro I, cap 9)
La linguistica storica assume una posizione analoga a quella di Dante:il tempo in sé stesso è sufficiente a produrre il mutamento linguistico.
Il trattato di Dante, composto probabilmente fra il 1804 e il 1808, è scritto in Latino perché indirizzato ai dotti sostenitori della lingua di Roma. Doveva esser formato da 4 libri ma rimase interrotto al capitolo 14 del II libro. Qui Dante si propone di ricercare quale debba essere la forma nobile e perfetta della lingua letteraria italiana e di dettare le norme per il suo uso. Secondo Dante dopo la confusione delle lingue al tempo della torre di Babele l’unico linguaggio usato era l’ebraico iniziato da Abramo con la parola EL che significa Dio. Le genti che vennero in Europa introdussero nella parte meridionale le tre lingue: lingua d’oc d’oil e del si; nelle regioni settentrionali introdussero le lingue germaniche; nelle regioni orientali introdussero il greco. La disparità fra le lingue portò, poi, alla ricerca di un linguaggio comune detto grammatico o letterario, cioè il latino universale immutabile che segue, secondo Dante, e non precede i volgari, i quali, perciò non dovrebbero essere chiamati lingue neolatine. Dante riteneva che a somiglianza del latino anche in Italia si dovesse avere un volgare illustre che assorbendo i 14 dialetti della penisola, splendesse di luce propria su di essi; questo volgare illustre detto anche cardinale, cioè cardine base di tutti gli altri o aulico, cioè lingua di corte o curiale, cioè quello della curia dove si amministra, si giudica, si applicano leggi. Ma Dante non risolve il problema, perché accenna piuttosto vagamente all’esistenza di un volgare illustre che si era formato alla corte palermitana di Federico II con il concorso di tutte le parlate d’Italia senza risiedere in nessuna di esse.
Nel II libro, Dante tratta delle 3 specie di stili: 1) stile tragico: è quello della canzone, a cui si addice il volgare illustre, che deve essere usato solo dagli uomini di scienza e di ingegno, scrittori e poeti che trattino argomenti elevati, quali l’amore , le virtù , le armi; 2) stile comico: è quello della ballata e del sonetto; 2) stile elegiaco: è quello delle forme liriche più modeste, a cui conviene un volgare più dimesso, adoperato per argomenti meno elevati. Dante parla poi di versi in particolare del quinario, settenario e endecasillabo e della struttura metrica della canzone, ritenuta la forma lirica più nobile. Il De Vulgari Eloquentia , che è il primo trattato di filologia e poetica nelle lingue romanze, ha notevole interesse scientifico, anche se, accanto ad alcune intuizioni accolte dalla linguistica moderna, si trovano delle ingenuità, delle idee e pregiudizi tipici del medioevo. Ciò nonostante, quest’opera deve essere considerata da una parte documento del formarsi spirituale della nazionalità italiana e dall’altra soprattutto documento della formazione artistica di Dante, che in quel libro “pose e difese un ideale di lingua e di stile, il volgare illustre, conforme al proprio sentire, quale fu in tempi recenti e con diverso sentire per il Manzoni l’ideale della lingua fiorentina”. (B. Croce)
De Vulgari Eloquentia, libro I, cap. 4 Dante dice: -Solo all’uomo è stato dunque concesso di parlare, come appare da quello che fin qui si è visto. Ora credo di dover indagare a che per primo fra gli uomini, sua data la lingua, e che abbia detto per prima cosa, a chi, dove, quando e infine in quale idioma siano state pronunciate le prime parole. Secondo quello che dice il libro della Genesi al principio, dove la sacra scrittura tratta delle origini dell’uomo, sarebbe stata una donna a parlare prima di tutti, cioè la presuntuosissima Eva quando rispose alle tentazioni del diavolo “noi ci nutriamo dei frutti degli alberi che sono in paradiso, ma il frutto dell’albero, che si trova nel mezzo del Paradiso, Dio ci ha ordinato di non mangiarlo e toccarlo perché non ci accada di morire.” Anche se nelle scritture si trova che ad aver parlato per prima sia stata una donna è ugualmente più ragionevole credere che ad aver parlato per prima sia stato un uomo. In effetti non è congruo pensare che un così egregio atto del genere umano sia opera prima di una donna che di un uomo, ritengo perciò ragionevole che allo stesso Adamo sia stato di parlare per primo, da Lui, che proprio allora lo aveva plasmato. Che cosa poi la voce del primo parlante abbia detto per la prima volta non dubito che a ogni uomo saggio venga subito in mente essersi trattato di Dio, ovvero El (ebraico) in forma di domanda o di risposta. Sembra assurdo e irrazionale che dall’uomo sia stato nominato qualcos’altro prima di Dio, poiché da lui e per lui fu creato, infatti, come dopo la ribellione dell’umano genere ognuno comincia a parlare con un “ahi” così è ragionevole che le parole dette prima comincino dalla gioia e, poiché non vi è alcuna gioia fuori di Dio ma tutta è in Dio, ma lo stesso Dio è tutta gioia, ne consegue che il primo parlante per prima cosa abbia detto innanzitutto “Dio”. Nasce ora un problema: visto che abbiamo detto sopra che il primo uomo parlò in forma di risposta, rispose egli a Dio? Infatti se rispose a Dio, allora, avrebbe parlato per primo Dio e ciò sarebbe in contraddizione con quanto abbiamo già accennato. Si può tuttavia replicare che poté ben rispondere a una domanda di Dio, ma non per questo Dio dové aver parlato proprio in quella che è per noi una lingua. Chi potrebbe infatti dubitare che tutto sia pieghevole al centro di Dio, che ogni cosa fa, conserva e governa? Perciò se a tanti perturbamenti l’aria si muove per volere della natura inferiore che è ministra e creatura di Dio sì che rimbomba il tuono, scocca il lampo, scende la pioggia, cade la neve, precipita la grandine, non poteva forse essa muoversi al comando di Dio per far risuonare parole, quando le scandiva e le distingueva proprio Colui, che cose ben più grandi separò e distinse. A questo e ad altri dubbi credo, dunque, che bastino queste considerazioni.-
De Vulgari Eloquentia, libro I, cap. 5 “ Il luogo della parola”:
-Ritenendo, non senza ragionevoli motivi desunti tanto da quanto già detto in precedenza che da quello che si dirà più avanti, che il primo uomo abbia per la prima volta indirizzato la sua parola a Dio stesso, preciso, sviluppando il ragionamento, che il primo parlante parlò subito, appena ricevuto il soffio dello spirito di vita. Credo infatti che nell’uomo è più specifico farsi sentire che sentire purché sia sentito e senta in quanto uomo. Se perciò, quel creatore, principio di perfezione e d’amore, col suo spirito, riempì di ogni perfezione il primo uomo, mi sembra ragionevole che il più nobile degli esseri viventi abbia cominciato prima a farsi sentire che a sentire. Se si controbbiettasse che non occorreva che Adamo parlasse perché era solo e perché Dio conosce senza bisogno di parole tutti i nostri segreti, persino prima di noi stessi, dirò, con quel rispetto che è d’obbligo quando si discute con la summa volontà che per quanto Dio sapesse anzi,
presapesse, il pensiero del primo parlante senza bisogno di parole, tuttavia volle che quello parlasse perché esibendo un tal dono rendesse gloria a Colui che glielo aveva dato gratuitamente. È perciò da credere che sia in noi d’origine divina, la gioia che proviamo nell’attuare a giusto fine le nostre specifiche caratteristiche. E da questo possiamo pienamente dedurre in quale luogo sia stata emessa la prima parola: perché se l’uomo è stato creato fuori dal Paradiso, avrà parlato per la prima volta fuori di esso, e se invece è stato creato dentro allora è provato che la prima parola fu pronunciata dentro di esso.-
De Vulgari Eloquentia, libro I, cap. 6: Poiché la vicenda umana si svolge in moltissimi e ben diversi idiomi, così che molti con molti si intendono tanto con le parole che senza, sarà bene ora muovere alla ricerca di quell’idioma che si pensa abbia usato l’uomo che non ebbe né madre, né balia e non conobbe né fanciullezza né adolescenza. Questo è uno di quei casi in cui una qualsiasi piccolo villaggio diventa una città, grandissima patria della maggior parte dei figli di Adamo. Infatti chiunque è tanto stolto da credere il suo paese nativo il più bello che esista al mondo, costui preferisce anche più di ogni altro il proprio volgare, cioè la propria lingua materna e per conseguenza crede che sia stato proprio quello usato da Adamo. Ma io che ho per patria il mondo come i pesci l’acqua, per quanto abbia bevuto in Arno prima ancora di mettere i denti e ami Firenze al punto che avendola troppo amata soffro ingiustamente l’esilio, io debbo soppesare il giudizio più con la ragione che col sentimento. E sebbene per il mio piacere e per l’appagamento dei miei sensi non ci sia in terra luogo più bello di Firenze avendo letto e riletto le pagine dei libri dei poeti e degli altri scrittori la dove il mondo è descritto nella sua complessità e nelle sue parti, e ripetutamente pensato tra me e me le differenti varietà dei luoghi della terra e la loro posizione rispetto ai due poli e all’equatore ne sono convinta e ora con sicurezza sostengo che sono molte le regioni e le città più nobili e più belle della Toscana e di Firenze di cui sono nativo e cittadino e quindi che ci sono molte stirpi e genti che usano una lingua più piacevole più funzionale di quella degli italiani. Tornando dunque al nostro argomento dico che da Dio fu creato insieme con la prima anima una data forma di linguaggio e dico forma sia quanto ai vocaboli delle cose che quanto alla loro sintassi e morfologia; questa forma sarebbe usata ancora oggi da ogni lingua che parla se per colpa della presunzione umana essa non fosse stata dispersa come vedremo. In questa forma di linguaggio parlò Adamo; in questa parlarono i suoi discendenti fino alla costruzione della Torre di Babele, che significa “Torre della Confusione”; questa hanno ereditato i figli di Eber che da lui furono chiamati Ebrei; Soltanto a costoro rimase dopo Babele affinché il nostro redentore, che da essi doveva nascere secondo la carne, potesse usare non una lingua della confusione ma quella della grazia. Fu dunque l’idioma ebraico che fabbricò le labbra del primo parlante.
De Vulgari Eloquentia, libro I, cap. 7: Dunque l’uomo presunse nel suo cuore sotto la suggestione del gigante Membrat di potere con la propria arte non solo superare la natura ma il fattore stesso della natura, Dio, e cominciò ad edificare una torre che in seguito fu detta Babele, cioè confusione, con la quale sperava di salire al cielo intendendo così non solo di eguagliare ma anche di superare il suo creatore. Quasi tutto il genere umano era dunque convenuto a quell’opera di iniquità: alcuni dirigevano i la lavori, altri li progettavano, alcuni costruivano i muri altri li squadravano, livellandoli e intonacandoli con le spatole; c’era chi attendeva a spaccare le pietre e chi a trasportarle per mare e per terra, altri gruppi erano addetti a diverse mansioni, quando dal cielo furono colpiti da una così grande confusione che mentre tutti usavano in quel cantiere una sola identica lingua, differenziati in molte lingue, dovettero rinunciare all’impresa e mai più poterono ritrovarsi in
un’opera comune, infatti solo a quelli che facevano uno stesso lavoro rimase una lingua identica; cioè una per tutti gli architetti; una per tutti quelli che trasportavano i massi ; una per tutti quelli che li lavoravano e così accadde per ogni gruppo di addetti. Di conseguenza quante erano all’opera le differenti competenze, altrettanti furono gli idiomi in cui si divise il genere umano e quanto più importante era il lavoro che si faceva, tanto più cominciarono a parlare una lingua razza e barbara. L’idioma sacro rimase solo a quelli che erano presenti, né avevano apprezzato l’impresa ma anzi, pesantemente detestandola deridevano la stoltezza di chi lavorava. Questa minima parte, minima quanto a numero, fu, a mio giudizio della gente di Sion, il terzo figlio di Noè, da questa nacque il popolo di Israele che usò quell’antichissima lingua fino al tempo della sua dispersione.
De Vulgari Eloquentia, libro I, cap. 8: Credo, non senza buon argomenti che dalla su ricordata confusione delle lingue gli uomini siano stati allora per la prima volta dispersi in tutti gli angoli del mondo, nelle zone climaticamente più abitabili e in quelle più remote e poiché la radice principale dell’umana progenie è piantata nelle terre orientali e da lì, da una parte all’altra la nostra razza si è estesa e diffusa attraverso molteplici tralci e infine è pervenuta alle terre d’occidente forse allora per la prima volta gole di esseri razionali si abbeverarono ai fiumi di tutta Europa, o almeno ad alcuni di essi. Ma, sia che stranieri fossero allora arrivati per la prima volta in Europa o che di essa nativi ritornassero gli uomini, portarono con sé un idioma triplice: di essi alcuni occuparono le regioni meridionali , altri quelle settentrionali d’Europa; il terzo gruppo oggi chiamata greco occupò terre in parti europee e in parti europee e in parti asiatiche. In seguito, come vedremo più avanti da uno stesso e identico idioma ricevuto nella confusione punitrice trassero origine diversi volgari. Infatti tutta la zona che va dalle foci del Danubio ebbe un unico idioma peraltro, poi, distintosi nei diversi volgari degli Slavi, degli Ungheresi, i Tedeschi, dei Sassoni, degli Inglesi e delle molteplici altre nazioni che conservano della comune origine quasi solo questo segno: che tutti, più o meno i suddetti rispondono affermativamente a una domanda con “iò”. (Si). Da dove comincia il territorio di questo idioma, cioè dai confini dell’Ungheria verso Oriente un’altra lingua occupò tutto quello che da quel punto si chiama Europa e si è estesa anche oltre. Tutta quella parte di Europa, poi, che resta fuori da questi due idiomi fu occupata da un terzo, peraltro, ora tripartito infatti alcuni dicono per affermare “oc”, “d’oil”, del “si”, e cioè gli Spagnoli, i Francesi e gli Italiani. Ma il segno che i volgari di queste tre popolazioni traggono origine da uno stesso idioma è subito chiaro perché nominano molte nazioni con le stesse parole come Dio, cielo, amore, mare, terra ecc. Di queste genti quelle con lingua d’oc occupano la parte occidentale dell’Europa meridionale cominciando dai confini dei genovesi. Quelle della lingua del si si dispongono dai suddetti confini verso oriente fino a quel promontorio d’Italia da cui comincia l’insenatura dell’Adriatico e arrivano fino in Sicilia. Infine le popolazioni della lingua d’oil sono in un certo senso a nord di queste: infatti hanno a oriente i Germani e a ovest e a nord sono chiusi dal mare d’Inghilterra e all’estremo limite hanno i Monti D’Aragona; a mezzogiorno confinano con i Provenzali e con lo spluviale delle Alpi Pennine.
De Vulgari Eloquentia, libro I, cap. 9: Cambiamento Linguistico Ora debbo mettere alla prova tutte le risorse della mia mente perché voglio misurarmi con un argomento in cui non mi soccorre alcuna autorità e cioè con la variazione seguita dall’unico e identico idioma nazionale. E, poiché si va meglio e più rapidamente per la vie più note, ci metteremo sulle tracce del solo nostro idioma, tralasciando gli altri: infatti ciò che è causa razionale di uno può ben essere causa anche degli altri. Dunque la lingua di cui andiamo trattando è triplice come sopra si è detto: infatti alcuni dicono “oc”, alcuni “oil”, altri “si”. E che sia stata una lingua unica all’inizio della dispersione appare dal fatto che concordiamo in molte parole come mostrano i maestri di eloquenza …………………………………………………]]]]]]]
Pavese, Joyce, Yeats
L’attaccamento alla propria terra
Il sentimento di attaccamento alla propria terra, luogo di ricordi, di esperienze irripetibili, coincise con le vicende personali ed artistiche di molti scrittori che riuscirono a trasportare sul foglio scritto le immagini fornitegli dalle stesse esperienze vissute sulla propria terra. Queste immagini particolari di ogni scrittore diventano letteratura quando si riesce ad esprimerle in maniera universale attraverso simboli, metafore, strutture narrative, trasformandosi in storie e personaggi.
Esemplare, in questo caso, è la figura di Cesare Pavese il quale ha lasciato un patrimonio incomparabile di racconti e poesie ambientate in un ambiente a lui più che familiare: le Langhe piemontesi e, più in generale, il Piemonte che ruotava intorno alla città cardine di Torino. È il Piemonte della indissolubile dicotomia tra campagna e città, della concretezza, della natura vista nella sua ferinità: sesso, sangue, morte, e il tutto si svolge fuori dal tempo in una dimensione difficilmente identificabile. Per comprendere appieno la “presenza biologica” e il “nodo di sangue e umori” che si nasconde dietro i versi delle poesie di Lavorare stanca e dietro i dialoghi tra i personaggi dei suoi racconti, è necessario ritrovare ed approfondire le relazioni che sussistono tra la stessa produzione di Pavese e gli studi antropologici ed etnologici, oltre che allo studio del linguaggio e dei miti.
È indubbio che la valle del fiume Belbo, le Langhe, le collinette di Canelli costituiscono le prime indissolubili radici biografiche di Pavese;
“Santo Stefano
è sempre stato il primo nelle feste della valle del Belbo e che le dicano
quei di Canelli”
inoltre è proprio da questi tasselli che lo scrittore piemontese costruisce le proprie storie e i caratteri dei suoi personaggi che riempiono i romanzi e i racconti. Una testimonianza importante del modo di pensare, di interpretare la realtà e dunque di scrivere di Pavese, è fornita, innanzitutto, dalla sua prima produzione della sua attività di scrittore, cioè la raccolta di poesie denominata Lavorare stanca. Questa raccolta rappresenta un punto di rottura con la tradizione poetica novecentesca sia dal punto di vista contenutistico, che da quello stilistico (distacco dalla tradizione ungarettiana e dalla poesia pura, uso del verso lungo). Sono invece evidenti i riferimenti alla tanto studiata letteratura americana e specialmente all’opera di Whitman e di Anderson. Si assiste quindi ad una trasposizione della metodologia e, specialmente, del linguaggio degli autori angloamericani cosicché si stabilisca una inossidabile relazione tra le vicende ambientate nelle Langhe e quelle dell’opera di Whitman. Innanzitutto il linguaggio della produzione poetica pavesiana e, più in generale, delle sue opere risulta aspro, diretto, antiaccademico, di stampo quasi verghiano (utilizzo di termini del lessico dialettale); si ha il passaggio da una poesia essenziale, chiara, oggettiva ad una poesia d’immagine dove coesistono naturalismo e simbolo;
“Vedo solo colline e mi riempiono il cielo e la terra
con le linee sicure dei fianchi, lontane o vicine.
Solamente le mie sono scabre, e striate di vigne
Faticose sul suolo bruciato. L’amico le accetta (…)
Per scoprirvi ridendo ragazze più nude dei frutti”
si dimostra fondamentale un’accurata analisi del linguaggio pavesiano, poiché permette di penetrare nella rappresentazione della realtà, la quale viene strutturata sui grandi temi della dicotomia tra campagna e città, terra e sangue.L’immagine del microcosmo pavesiano che viene fuori è un’immagine che nella sua presunta antiteticità, presenta elementi comuni. Il vocabolario delle poesie è incentrato su termini chiave che sono continuamente ripetuti e ribaditi - colle, sangue, donna, lavoro, terra, campagna, corsi, città- e intorno a questi ultimi si sviluppano i temi cari a Pavese dell’amore per la donna (amore per la terra), della fatica lavorativa, dell’amore-odio per la campagna, luogo nativo, dove persistono tradizioni antiche, quasi barbariche, se paragonate alla moderna e borghese Torino.I personaggi che animano i componimenti pavesiani appartengono alla sfera dei cosiddetti “esclusi”, gente che vive ai margini della società borghese cittadina - prostitute, ubriachi, pezzenti, operai- dotati di una forte umanità e di una sensibilità che spesso si oppone alla superficialità degli uomini borghesi. Naturalmente non mancano le naturalistiche rappresentazioni degli abitanti dell’ambiente rurale, colti nella loro naturale ruvidezza caratteriale, nel loro pragmatismo che li conduce a fatiche e lavori estenuanti sotto la calura estiva, mentre trebbiano il grano o mentre allevano le bestie, mezzo insostituibile per la sopravvivenza.
“Qualche volta compaiono file di ceste di frutta,
ma non salgono in cima: i villani le portano a casa
sulla schiena, contorti (…)
i villani scendono, salgono e zappano forte (…)
spossati dal lavoro dell’alba”
Il quadro che ne scaturisce rassomiglia per molti aspetti, oltre che alle descrizioni dei narratori americani, anche alla Sicilia verghiana e, soprattutto all’Abruzzo dannunziano delle Novelle della Pescara; se ne deduce che la situazione socioeconomica della campagna piemontese presenta carattere universale, simboleggiando così un luogo ideale in cui persistono tradizioni e riti di sapore arcaico e, in un certo modo, barbarico, in cui, inoltre, la terra assume carattere mitico, identificandosi con la donna e, quindi, con la madre.
Gli stessi temi affrontati in Lavorare stanca si ritroveranno, tre anni dopo, nei romanzi denominati “naturalisti” dallo stesso Pavese : Il carcere, Paesi tuoi, La spiaggia e La bella estate. Sono romanzi che non colpiscono per la loro “leggibilità”, ma che rappresentarono per Pavese la consapevolezza della sua scelta di narrare le vicende del microcosmo rurale delle Langhe. In particolare Paesi tuoi si può considerare un anticipatore delle tematiche che saranno affrontate dal nascente filone neorealista del cinema italiano. I modelli di riferimento continuano ad essere i grandi narratori americani, da cui Pavese mutua il linguaggio e una forza di espressione derivata dell’uso di dialoghi serrati tra i personaggi, segnati da battute brevi e notevoli influssi del gergo dialettale. Ancora una volta è il paesaggio a catalizzare l’attenzione del lettore ed ad essere il fulcro del romanzo; il paesaggio, magistralmente rappresentato dall’autore, incomincia con questo romanzo ad assumere connotazioni mitiche che si riveleranno con maggiore evidenza nei successivi romanzi.
“Rivedo la collina del treno. Era cresciuta e sembrava proprio una poppa, tutta rotonda sulle coste e col ciuffo di piante che la chiazzava in punta”
La campagna di Paesi tuoi pullula di sentimenti accesi e violenti, espressi da personaggi che, analizzati sapientemente da Pavese, mostrano la propria forza di volontà e la propria abnegazione che gli permette di sopravvivere in una realtà dura e difficile. La figura di Vinverra, padre padrone, è emblematica di una situazione rurale in cui la famiglia è dominata da un forte senso patriarcale, in cui la donna è atta solo alla procreazione ed all’allevamento dei figli, al contrario dell’uomo che lavora aspramente la terra, vero nucleo del microcosmo famigliare. In contrapposizione alla realtà contadina c’è Berto, il quale provenendo dal contesto cittadino si sente a disagio in un ambiente come quello della famiglia di Vinverra. Berto procede ad un osservazione critica di ogni minimo atteggiamento che ciascun componente del casolare assume, muovendo spesso critiche e risentimenti che lo porteranno a giudicare attentamente i componenti della famiglia sia da un punto di vista squisitamente fisico, sia da un punto di vista psicologico, attraverso i suoi pensieri e le sue riflessioni che denotano la sua profonda acutezza di spirito osservativo.
La linguistica moderna ha influenzato notevolmente gli studi antropologici ed etnologici, a tal punto che si parla di approccio emico, indicando con questo vocabolo l’assunzione da parte dello scienziato del modo di conoscere e descrivere la cultura proprio dei suoi membri, ai quali compete la verifica dell’accettabilità dei risultati ottenuti. Scrittori come Pavese, Joyce e Yeats si possono indubbiamente indicare come precursori di queste istanze della “nuova antropologia”, eleggendo come campo di ricerca il rapporto tra cultura, linguaggio e ambiente. Il linguaggio esprime la cultura, di conseguenza la lingua di un popolo riflette la sua visione del mondo e parlare lingue diverse significa vivere realtà diverse, sebbene ogni lingua possegga caratteristiche costruttive universali; prende corpo con questi autori la convinzione che esistano saperi locali la cui verità e falsità è imprescindibile dal rapporto tra uomo, ambiente, lingua e cultura. Il che porta al ruolo del significato quale elemento conosciuto, condiviso ed adoperato tra gli uomini nelle loro interazioni quotidiane per la trasmissione del sapere.
Le precedenti teorie, applicate da Pavese nell’ambito regionale piemontese, si ritrovano nello stesso modo in due autori appartenenti al contesto irlandese dei primi anni del novecento: James Joyce e William B. Yeats.
La situazione socio-politica in cui sono inseriti i due scrittori è quella di un’Irlanda che cerca decisamente l’autonomia dall’Inghilterra. A questo scopo si era dedicato il movimento di Parnell, volto alla conquista dell’Home Rule, una legge che garantiva un parlamento autonomo irlandese, in una sorta di autogoverno. Il movimento di Parnell fu però surclassato dalla nascita del Sinn Fein, che invocava l’indipendenza in forme più estremiste e ferocemente nazionaliste. La costituzione di eserciti clandestini (IRA in primis) provocò scontri sanguinosi fino al 1921, anno in cui il trattato anglo-irlandese sancì lo stato libero d’Irlanda, da cui restavano escluse le sei contee a maggioranza protestane dell’Ulster. In un ambiente così teso, la società che vien fuori dal romanzo di Joyce, Gente di Dublino, è praticamente statica, apatica caratterizzata dalla forte immobilità sociale. Il rapporto tra Joyce e la realtà irlandese è estremamente complesso; egli sembra rifiutare ogni legame con la patria, dal nazionalismo alle tradizioni celtiche e gaeliche. Ma, ad un’analisi profonda quasi tutta la produzione joyciana ha come fulcro l’Irlanda e specialmente Dublino, che è rappresentata con dovizia di particolari. Le categorie rappresentate nelle pagine del romanzo Gente di Dublino sono quelle della borghesia urbana e rurale con le maniacali abitudini quotidiane, immerse in ogni modo in un’atmosfera “polverosa” dovuta alla scarsezza di eventi sconvolgenti o importanti per i protagonisti. La rivalutazione di questo mondo a lui estremamente familiare, si mostra nel romanzo joyciano, attraverso la descrizione realistica del paesaggio (uso preciso dei nomi delle vie e dei quartieri di Dublino) ed anche presentando un ritratto dettagliato della popolazione borghese, colta nelle sue attività quotidiane. In “Gente di Dublino” Joyce accerta il fallimento della autorealizzazione dei personaggi, individuata in particolari psicologici. L’utilizzo di un linguaggio lontano dagli sperimentalismi dell’Ulisse, permette l’addentrarsi in una realtà “paralizzata” in cui gli abitanti sono intrappolati dalla frustrazione cui sono quotidianamente soggetti. L’uso, inoltre, minuzioso dei nomi dei posti, dei quartieri, dei pub, oltre ad evidenziare il realismo del romanzo, assume un importante significato simbolico. Un altro carattere importantissimo per quella società, che si rispecchia in alcuni episodi del romanzo, era il forte senso di appartenenza etnico-nazionale; questo nazionalismo era però riscontrabile prevalentemente in ambito culturale e non, fortunatamente, in ambito politico; storicamente in questo periodo si assiste alla rivalutazione della cultura celtica e gaelica con l’istituzione della Gaelic League e dell’Irish National Theatre Society in cui si sente l’influenza di Yeats.
Proprio Yeats è considerato il poeta nazionale dell’EIRE; il suo interesse nei confronti della sua nazione è suddivisibile in diverse branche:
1. Linguaggio: uso del dialetto anglo-irlandese
2. Folklore: riscoperta delle tradizioni celtiche (leggende, canzoni, ballate)
3. Paesaggio: scenari irlandesi; descrizione dei posti, idealizzazione dell’Irlanda
4. Storia: questione irlandese; ruolo del poeta e dell’intellettuale
Molte persone influirono sulla formazione poetica del giovane Yeats, tra cui Maud Gonne, Lady Gregory e John O’Leary; le stesse persone furono determinanti riguardo al suo interesse per le vicende della nazione. Le sue prime poesie appartenevano al repertorio romantico ma già erano animate da un grande attaccamento al paesaggio ed alle leggende della sua Irlanda, con un tono evocativo più che concreto.
“I will arise and go now, and go to Innisfree,
and a small cabin build there, of clay and wattles made (…)
and i shall have some peace there, for peace comes, dropping slow”
In seguito con la raccolta “Responsibilities” la sua poesia assume carattere “pubblico”; Yeats sostenne che i poeti devono smettere di dedicarsi ad una forma di internazionalismo vago ed astratto, ma devono sposare i tratti della natura che li circonda, i sentimenti dominanti di una razza e di un popolo. Il tono pubblico e polemico si estende anche alla poesia “Easter 1916” dove esplode la consapevolezza dell’importante momento che si sta vivendo. Yeats addirittura procede ad un elenco dei patrioti che fomentarono la rivolta, finendo per morire o per essere arrestati (Padraic Pearse, Thomas Mc Donagh, John Mc Bride, James Connoly).
“I write it out in a verse-
Mc Donagh and Mc Bride
And Connolly and Pearse
Now and in time to be,
wherever green is worn,
are changed, changed utterly:
a terrible beauty is born.”
La grandezza di Yeats comunque risiede nella sua capacità di portare a galla un fondo di tradizione celtica attraverso le sue poesie; a questo scopo furono indispensabili un accurato uso del linguaggio ed una azzeccata riscoperta di temi e di stili propri della tradizione irlandese come le ballate.
L’attaccamento alla propria terra
Il sentimento di attaccamento alla propria terra, luogo di ricordi, di esperienze irripetibili, coincise con le vicende personali ed artistiche di molti scrittori che riuscirono a trasportare sul foglio scritto le immagini fornitegli dalle stesse esperienze vissute sulla propria terra. Queste immagini particolari di ogni scrittore diventano letteratura quando si riesce ad esprimerle in maniera universale attraverso simboli, metafore, strutture narrative, trasformandosi in storie e personaggi.
Esemplare, in questo caso, è la figura di Cesare Pavese il quale ha lasciato un patrimonio incomparabile di racconti e poesie ambientate in un ambiente a lui più che familiare: le Langhe piemontesi e, più in generale, il Piemonte che ruotava intorno alla città cardine di Torino. È il Piemonte della indissolubile dicotomia tra campagna e città, della concretezza, della natura vista nella sua ferinità: sesso, sangue, morte, e il tutto si svolge fuori dal tempo in una dimensione difficilmente identificabile. Per comprendere appieno la “presenza biologica” e il “nodo di sangue e umori” che si nasconde dietro i versi delle poesie di Lavorare stanca e dietro i dialoghi tra i personaggi dei suoi racconti, è necessario ritrovare ed approfondire le relazioni che sussistono tra la stessa produzione di Pavese e gli studi antropologici ed etnologici, oltre che allo studio del linguaggio e dei miti.
È indubbio che la valle del fiume Belbo, le Langhe, le collinette di Canelli costituiscono le prime indissolubili radici biografiche di Pavese;
“Santo Stefano
è sempre stato il primo nelle feste della valle del Belbo e che le dicano
quei di Canelli”
inoltre è proprio da questi tasselli che lo scrittore piemontese costruisce le proprie storie e i caratteri dei suoi personaggi che riempiono i romanzi e i racconti. Una testimonianza importante del modo di pensare, di interpretare la realtà e dunque di scrivere di Pavese, è fornita, innanzitutto, dalla sua prima produzione della sua attività di scrittore, cioè la raccolta di poesie denominata Lavorare stanca. Questa raccolta rappresenta un punto di rottura con la tradizione poetica novecentesca sia dal punto di vista contenutistico, che da quello stilistico (distacco dalla tradizione ungarettiana e dalla poesia pura, uso del verso lungo). Sono invece evidenti i riferimenti alla tanto studiata letteratura americana e specialmente all’opera di Whitman e di Anderson. Si assiste quindi ad una trasposizione della metodologia e, specialmente, del linguaggio degli autori angloamericani cosicché si stabilisca una inossidabile relazione tra le vicende ambientate nelle Langhe e quelle dell’opera di Whitman. Innanzitutto il linguaggio della produzione poetica pavesiana e, più in generale, delle sue opere risulta aspro, diretto, antiaccademico, di stampo quasi verghiano (utilizzo di termini del lessico dialettale); si ha il passaggio da una poesia essenziale, chiara, oggettiva ad una poesia d’immagine dove coesistono naturalismo e simbolo;
“Vedo solo colline e mi riempiono il cielo e la terra
con le linee sicure dei fianchi, lontane o vicine.
Solamente le mie sono scabre, e striate di vigne
Faticose sul suolo bruciato. L’amico le accetta (…)
Per scoprirvi ridendo ragazze più nude dei frutti”
si dimostra fondamentale un’accurata analisi del linguaggio pavesiano, poiché permette di penetrare nella rappresentazione della realtà, la quale viene strutturata sui grandi temi della dicotomia tra campagna e città, terra e sangue.L’immagine del microcosmo pavesiano che viene fuori è un’immagine che nella sua presunta antiteticità, presenta elementi comuni. Il vocabolario delle poesie è incentrato su termini chiave che sono continuamente ripetuti e ribaditi - colle, sangue, donna, lavoro, terra, campagna, corsi, città- e intorno a questi ultimi si sviluppano i temi cari a Pavese dell’amore per la donna (amore per la terra), della fatica lavorativa, dell’amore-odio per la campagna, luogo nativo, dove persistono tradizioni antiche, quasi barbariche, se paragonate alla moderna e borghese Torino.I personaggi che animano i componimenti pavesiani appartengono alla sfera dei cosiddetti “esclusi”, gente che vive ai margini della società borghese cittadina - prostitute, ubriachi, pezzenti, operai- dotati di una forte umanità e di una sensibilità che spesso si oppone alla superficialità degli uomini borghesi. Naturalmente non mancano le naturalistiche rappresentazioni degli abitanti dell’ambiente rurale, colti nella loro naturale ruvidezza caratteriale, nel loro pragmatismo che li conduce a fatiche e lavori estenuanti sotto la calura estiva, mentre trebbiano il grano o mentre allevano le bestie, mezzo insostituibile per la sopravvivenza.
“Qualche volta compaiono file di ceste di frutta,
ma non salgono in cima: i villani le portano a casa
sulla schiena, contorti (…)
i villani scendono, salgono e zappano forte (…)
spossati dal lavoro dell’alba”
Il quadro che ne scaturisce rassomiglia per molti aspetti, oltre che alle descrizioni dei narratori americani, anche alla Sicilia verghiana e, soprattutto all’Abruzzo dannunziano delle Novelle della Pescara; se ne deduce che la situazione socioeconomica della campagna piemontese presenta carattere universale, simboleggiando così un luogo ideale in cui persistono tradizioni e riti di sapore arcaico e, in un certo modo, barbarico, in cui, inoltre, la terra assume carattere mitico, identificandosi con la donna e, quindi, con la madre.
Gli stessi temi affrontati in Lavorare stanca si ritroveranno, tre anni dopo, nei romanzi denominati “naturalisti” dallo stesso Pavese : Il carcere, Paesi tuoi, La spiaggia e La bella estate. Sono romanzi che non colpiscono per la loro “leggibilità”, ma che rappresentarono per Pavese la consapevolezza della sua scelta di narrare le vicende del microcosmo rurale delle Langhe. In particolare Paesi tuoi si può considerare un anticipatore delle tematiche che saranno affrontate dal nascente filone neorealista del cinema italiano. I modelli di riferimento continuano ad essere i grandi narratori americani, da cui Pavese mutua il linguaggio e una forza di espressione derivata dell’uso di dialoghi serrati tra i personaggi, segnati da battute brevi e notevoli influssi del gergo dialettale. Ancora una volta è il paesaggio a catalizzare l’attenzione del lettore ed ad essere il fulcro del romanzo; il paesaggio, magistralmente rappresentato dall’autore, incomincia con questo romanzo ad assumere connotazioni mitiche che si riveleranno con maggiore evidenza nei successivi romanzi.
“Rivedo la collina del treno. Era cresciuta e sembrava proprio una poppa, tutta rotonda sulle coste e col ciuffo di piante che la chiazzava in punta”
La campagna di Paesi tuoi pullula di sentimenti accesi e violenti, espressi da personaggi che, analizzati sapientemente da Pavese, mostrano la propria forza di volontà e la propria abnegazione che gli permette di sopravvivere in una realtà dura e difficile. La figura di Vinverra, padre padrone, è emblematica di una situazione rurale in cui la famiglia è dominata da un forte senso patriarcale, in cui la donna è atta solo alla procreazione ed all’allevamento dei figli, al contrario dell’uomo che lavora aspramente la terra, vero nucleo del microcosmo famigliare. In contrapposizione alla realtà contadina c’è Berto, il quale provenendo dal contesto cittadino si sente a disagio in un ambiente come quello della famiglia di Vinverra. Berto procede ad un osservazione critica di ogni minimo atteggiamento che ciascun componente del casolare assume, muovendo spesso critiche e risentimenti che lo porteranno a giudicare attentamente i componenti della famiglia sia da un punto di vista squisitamente fisico, sia da un punto di vista psicologico, attraverso i suoi pensieri e le sue riflessioni che denotano la sua profonda acutezza di spirito osservativo.
La linguistica moderna ha influenzato notevolmente gli studi antropologici ed etnologici, a tal punto che si parla di approccio emico, indicando con questo vocabolo l’assunzione da parte dello scienziato del modo di conoscere e descrivere la cultura proprio dei suoi membri, ai quali compete la verifica dell’accettabilità dei risultati ottenuti. Scrittori come Pavese, Joyce e Yeats si possono indubbiamente indicare come precursori di queste istanze della “nuova antropologia”, eleggendo come campo di ricerca il rapporto tra cultura, linguaggio e ambiente. Il linguaggio esprime la cultura, di conseguenza la lingua di un popolo riflette la sua visione del mondo e parlare lingue diverse significa vivere realtà diverse, sebbene ogni lingua possegga caratteristiche costruttive universali; prende corpo con questi autori la convinzione che esistano saperi locali la cui verità e falsità è imprescindibile dal rapporto tra uomo, ambiente, lingua e cultura. Il che porta al ruolo del significato quale elemento conosciuto, condiviso ed adoperato tra gli uomini nelle loro interazioni quotidiane per la trasmissione del sapere.
Le precedenti teorie, applicate da Pavese nell’ambito regionale piemontese, si ritrovano nello stesso modo in due autori appartenenti al contesto irlandese dei primi anni del novecento: James Joyce e William B. Yeats.
La situazione socio-politica in cui sono inseriti i due scrittori è quella di un’Irlanda che cerca decisamente l’autonomia dall’Inghilterra. A questo scopo si era dedicato il movimento di Parnell, volto alla conquista dell’Home Rule, una legge che garantiva un parlamento autonomo irlandese, in una sorta di autogoverno. Il movimento di Parnell fu però surclassato dalla nascita del Sinn Fein, che invocava l’indipendenza in forme più estremiste e ferocemente nazionaliste. La costituzione di eserciti clandestini (IRA in primis) provocò scontri sanguinosi fino al 1921, anno in cui il trattato anglo-irlandese sancì lo stato libero d’Irlanda, da cui restavano escluse le sei contee a maggioranza protestane dell’Ulster. In un ambiente così teso, la società che vien fuori dal romanzo di Joyce, Gente di Dublino, è praticamente statica, apatica caratterizzata dalla forte immobilità sociale. Il rapporto tra Joyce e la realtà irlandese è estremamente complesso; egli sembra rifiutare ogni legame con la patria, dal nazionalismo alle tradizioni celtiche e gaeliche. Ma, ad un’analisi profonda quasi tutta la produzione joyciana ha come fulcro l’Irlanda e specialmente Dublino, che è rappresentata con dovizia di particolari. Le categorie rappresentate nelle pagine del romanzo Gente di Dublino sono quelle della borghesia urbana e rurale con le maniacali abitudini quotidiane, immerse in ogni modo in un’atmosfera “polverosa” dovuta alla scarsezza di eventi sconvolgenti o importanti per i protagonisti. La rivalutazione di questo mondo a lui estremamente familiare, si mostra nel romanzo joyciano, attraverso la descrizione realistica del paesaggio (uso preciso dei nomi delle vie e dei quartieri di Dublino) ed anche presentando un ritratto dettagliato della popolazione borghese, colta nelle sue attività quotidiane. In “Gente di Dublino” Joyce accerta il fallimento della autorealizzazione dei personaggi, individuata in particolari psicologici. L’utilizzo di un linguaggio lontano dagli sperimentalismi dell’Ulisse, permette l’addentrarsi in una realtà “paralizzata” in cui gli abitanti sono intrappolati dalla frustrazione cui sono quotidianamente soggetti. L’uso, inoltre, minuzioso dei nomi dei posti, dei quartieri, dei pub, oltre ad evidenziare il realismo del romanzo, assume un importante significato simbolico. Un altro carattere importantissimo per quella società, che si rispecchia in alcuni episodi del romanzo, era il forte senso di appartenenza etnico-nazionale; questo nazionalismo era però riscontrabile prevalentemente in ambito culturale e non, fortunatamente, in ambito politico; storicamente in questo periodo si assiste alla rivalutazione della cultura celtica e gaelica con l’istituzione della Gaelic League e dell’Irish National Theatre Society in cui si sente l’influenza di Yeats.
Proprio Yeats è considerato il poeta nazionale dell’EIRE; il suo interesse nei confronti della sua nazione è suddivisibile in diverse branche:
1. Linguaggio: uso del dialetto anglo-irlandese
2. Folklore: riscoperta delle tradizioni celtiche (leggende, canzoni, ballate)
3. Paesaggio: scenari irlandesi; descrizione dei posti, idealizzazione dell’Irlanda
4. Storia: questione irlandese; ruolo del poeta e dell’intellettuale
Molte persone influirono sulla formazione poetica del giovane Yeats, tra cui Maud Gonne, Lady Gregory e John O’Leary; le stesse persone furono determinanti riguardo al suo interesse per le vicende della nazione. Le sue prime poesie appartenevano al repertorio romantico ma già erano animate da un grande attaccamento al paesaggio ed alle leggende della sua Irlanda, con un tono evocativo più che concreto.
“I will arise and go now, and go to Innisfree,
and a small cabin build there, of clay and wattles made (…)
and i shall have some peace there, for peace comes, dropping slow”
In seguito con la raccolta “Responsibilities” la sua poesia assume carattere “pubblico”; Yeats sostenne che i poeti devono smettere di dedicarsi ad una forma di internazionalismo vago ed astratto, ma devono sposare i tratti della natura che li circonda, i sentimenti dominanti di una razza e di un popolo. Il tono pubblico e polemico si estende anche alla poesia “Easter 1916” dove esplode la consapevolezza dell’importante momento che si sta vivendo. Yeats addirittura procede ad un elenco dei patrioti che fomentarono la rivolta, finendo per morire o per essere arrestati (Padraic Pearse, Thomas Mc Donagh, John Mc Bride, James Connoly).
“I write it out in a verse-
Mc Donagh and Mc Bride
And Connolly and Pearse
Now and in time to be,
wherever green is worn,
are changed, changed utterly:
a terrible beauty is born.”
La grandezza di Yeats comunque risiede nella sua capacità di portare a galla un fondo di tradizione celtica attraverso le sue poesie; a questo scopo furono indispensabili un accurato uso del linguaggio ed una azzeccata riscoperta di temi e di stili propri della tradizione irlandese come le ballate.
sabato 29 marzo 2008
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